21 Novembre, 2024

Distanti ma vibranti. La capacità dei luoghi di adattarsi alla perifericità

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Uno dei temi maggiormente attenzionati nell’ambito della Geografia economica è la comprensione delle determinanti che consentono ad alcuni territori di crescere nonostante gli shock ai quali sono soggetti mentre altri rimangono intrappolati in una spirale di declino.

Il riferimento teoretico comunemente utilizzato è quello della resilienza, ovvero la capacità di resistere e rispondere ad un disturbo che sia esso endogeno (come lo spopolamento) o esogeno (come un disastro naturale) non solo discreto, ma anche di lungo corso (quale la combustione lenta). In letteratura si distinguono tre tipologie di resilienza, una delle quali, quella cosiddetta adattiva, approfondisce come alcuni territori abbiano (o possano sviluppare) la capacità di riorganizzare, anche spontaneamente, la propria struttura sotto il profilo economico, istituzionale e sociale e trovare nuove traiettorie di crescita, facendo quindi un “rimbalzo in avanti” mettendo a frutto i propri asset e le proprie risorse. In tal senso, quindi, la capacità adattiva è una caratteristica che si sviluppa e trasforma nel tempo, che dipende da un lato da tendenze evolutive preesistenti e, dall’altro, da nuove risorse (umane, economiche, sociali) che si inseriscono nel capitale territoriale e nella rete relazionale della comunità.

L’attenzione a questo tipo di dinamiche, in particolare quelle di combustione lenta, diviene pertanto particolarmente saliente con riferimento alle aree marginali, la cui capacità di resilienza e adattamento al cambiamento potrebbe essere corrosa dal continuo e incrementale relativo declino demografico. Perifericità e marginalità sono però sostantivi relativi, spazialmente e temporalmente situati che spesso mancano di una definizione se non nella loro contrapposizione ad un altro: in termini di specificità o caratteristiche non presenti, o come opposti ad un focus specifico o, infine, in termini di relazione con un centro. Uno sforzo nella direzione di una lettura precisa della perifericità, che parte da una interpretazione ampia che tiene conto della qualità di vita dei cittadini,  ci viene suggerita dalla Strategia Nazionale per le Aree Interne, che definisce queste ultime come quei territori distanti (in termini di tempi di percorrenza) dai centri nei quali si concentrano i principali servizi alla popolazione (istruzione, sanità e trasporti) che garantiscono un’equità nel sentirsi cittadini indipendentemente dal luogo di residenza. La forza di questa classificazione risiede nella sua trasversalità, nel voler andare oltre la dicotomia Nord-Sud, per render maggiormente conto della policentricità del nostro territorio nazionale, da un lato, e della necessità che le politiche attenzionino questi luoghi in un modo nuovo, cercando, attraverso l’attivazione della conoscenza diffusa, di far emergere quelle potenzialità latenti e non ancora messe pienamente a frutto capaci di contrastarne lo spopolamento.

Il fenomeno dello spopolamento delle aree interne italiane affonda le sue radici negli anni ’30, quando la dorsale appenninica ha visto scivolare a valle i suoi abitanti, principalmente come conseguenza del venire meno di quegli elementi essenziali alla vita: l’emigrazione, soprattutto maschile, e la perdita di redditività dell’allevamento e della silvicoltura, tra gli altri. La rapida crescita economica e l’evoluzione dell’industria, specialmente manifatturiera, degli anni ‘50 e ‘60 hanno ulteriormente esacerbato queste tendenze che, unite al peggioramento del tasso di fecondità e una non compensazione dei flussi migratori, hanno portato ad una sempre maggiore concentrazione di popolazione nelle città (+12 milioni rispetto al 1951), svuotando le campagne e le montagne nonché i piccoli centri.

Figura 1 – Percentuale di variazione demografica. Fonte: Propria elaborazione su dati ISTAT

Eppure, sebbene in un contesto generale di stagnazione demografica, una complessa combinazione di dinamiche naturali e migratorie ha consentito ad alcuni territori di mantenere, e in alcuni casi aumentare, il numero di residenti.

È precisamente su questi territori che abbiamo voluto focalizzare la nostra attenzione a dimostrazione che la conoscenza delle specificità locali e dei punti di forza che li caratterizzano, se opportunamente sostenuti, possono contribuire a sviluppare la capacità di far fronte autonomamente ai cambiamenti, le crisi e le difficoltà prolungate nel tempo senza ricorso a forme di assistenzialismo, spesso inappropriate e in qualche modo mortificanti verso territori che, invece, hanno e vogliono avere un’opportunità di crescita in linea con le proprie aspirazioni e attitudini. Li abbiamo voluti chiamare “vibranti” quei territori che, inaspettatamente (soprattutto per le teorie di crescita economica guidate dalle forze agglomerative e, dunque, di matrice urbanocentrica) sono riusciti nel tempo (dal 1971 all’ultimo censimento generale della popolazione del 2011) a mantenere una traiettoria positiva di incremento demografico rispetto a quelli che stanno subendo una “lenta combustione” nel numero di residenti o, infine, a quei territori il cui percorso non si è al momento assestato e oscillano tra periodi di incremento ad altri di decremento demografico.

Figura 2 – Distribuzione delle classi di variazione demografica (sinistra: tutto il territorio; destra: solo aree interne). Fonte: Propria elaborazione su dati ISTAT

L’analisi che abbiamo condotto ci ha permesso di identificare alcune determinanti che sembrano contribuire a spiegare perché un territorio, pur periferico, riesca a vibrare: tra queste rientrano la presenza di un ambiente economico differenziato in grado di cogliere le opportunità offerte dalla terziarizzazione dell’economia, un alto livello di occupazione femminile e una bassa esposizione al rischio di vulnerabilità sociale e materiale. Altri fattori invece paiono legati al contesto e al momento storico, quali ad esempio la densità di popolazione, il grado di istruzione terziaria superiore o le diverse tipologie di opportunità occupazionali. Un elemento che necessita di ulteriore indagine, data l’alta dotazione di risorse paesaggistiche e naturali nelle aree interne italiane, è la non rilevanza della presenza di parchi e aree protette nelle traiettorie di crescita di questi territori. Ciò invita a riflettere sulla valorizzazione di questo importante capitale naturale, il cui potenziale è talvolta limitato da un approccio vincolistico delle misure che lo interessano nel delicato bilanciamento tra sfruttamento e tutela.

Comprendere a fondo le determinanti strutturali o contingenti che localmente determinano la capacità adattiva, e dunque le traiettorie future di sviluppo, di sistemi territoriali che sono vulnerabili in virtù della loro marginalità è sempre più indispensabile. Le ultime previsioni sul futuro demografico del paese stimate da ISTAT (22 settembre 2022), infatti, fanno intravedere un quadro di crisi allarmante: entro 10 anni in quattro comuni su cinque è atteso un calo di popolazione, in nove su dieci nel caso di comuni di zone rurali.

Ulteriori approfondimenti

  • De Renzis A., Faggian A., Urso G. (2022), Distant but vibrant places. Local determinants of adaptability capacity to peripherality. Tijdschrift voor economische en sociale geografie – Journal of Economic and Human Geography. First published: 09 July 2022. DOI: 10.1111/tesg.12535.
  • Modica M., Urso G., Faggian A. (2021), Do “inner areas” matter? Conceptualization, trends and strategies for their future development path. Scienze Regionali, Italian Journal of Regional Science, 20: 2: 237-265. 
  • De Rossi A. (a cura di) (2018), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Donzelli, Roma.

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