23 Novembre, 2024

Le ZES: una, nessuna o centomila… che confusione!

Tempo di lettura: 5 minuti

La creazione di diversi tipi di zone di incentivazione economica (ZI) rappresenta uno dei principali strumenti di politica industriale utilizzati per attrarre investimenti, stimolare la produzione, le esportazioni e, quindi, la crescita economica. Tali strumenti, riconosciuti ed utilizzati sia in paesi industrializzati che in via di sviluppo, promuovono sia il cambiamento strutturale di specifici settori economici sia lo sviluppo di aree definite: sono progettati per generare processi di crescita circolari e cumulativi orientati all’esportazione.

Le ZI sono definite come aree delimitate con vantaggi specifici, che godono non solo di benefici fiscali ma anche sostegno finanziario, infrastrutturale e logistico, oltre ad essere soggette a legislazioni e procedure speciali che possono differire da altre parti dello stesso paese. Il termine generico ‘zona di incentivazione’ (ZI) copre vari tipi di politiche di incentivazione che possono coesistere nello stesso paese: Si distinguono in: zone economiche speciali, zone franche, parchi industriali, zone di libero scambio, porti franchi, zone di commercio estero e zone di trasformazione per l’esportazione. Qualunque sia la tipologia di riferimento, il concetto di base rimane invariato. Al fine di attirare gli investimenti, promuovere la crescita economica e creazione di posti di lavoro, molti paesi hanno sperimentato la creazione di zone di vantaggio per la creazione di nuove imprese. Secondo la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, al 2019 si contavano quasi 5400 ZI attive in 147 paesi in tutto il mondo, con una tendenza in aumento. La maggior parte delle ZI nel mondo si trova nei paesi in via di sviluppo: in particolare in Asia (4046), seguita da America Latina (486) e Africa (237). Circa il 25% di tali zone può essere definito sottoutilizzato e 22% pesantemente sottoutilizzato.

Mentre in molti paesi le ZI hanno avuto un enorme successo nel raggiungimento degli obiettivi prefissati, in altri sono stati prodotti pochi effetti di spill over. Complessivamente emerge un quadro globale eterogeneo sia nei paesi in via di sviluppo che in quelli industrializzati.

Nell’Unione europea (UE), ad oggi sono 23 gli Stati membri hanno ospitato almeno una di queste zone, per un totale di 97 zone tra le attive e quelle chiuse. Poiché le ZI dell’UE sono disciplinate dal codice comunitario delle dogane (CDU) e devono rispettare le norme in materia di aiuti di Stato, la disciplina generica delle zone incentivanti, come parte della più ampia politica economica dell’UE, è stabilita a livello comunitario. In questo modo la riforma avrebbe dovuto portare a benefici simili in tutte le regioni in cui erano localizzate le ZI. Tuttavia, la possibilità di differenziare ogni beneficio all’interno di ogni ZI, in termini di dimensioni, benefici e tipologia di incentivi, ha generato enormi disparità negli impatti raggiunti, contravvenendo al principio di convergenza tra le regioni. La capacità di stabilire una ZI di successo dipende dagli obiettivi di politica industriale di lungo termine a livello nazionale, e dalla capacità dei policy-makers di rendere le ZI complementari agli altri strumenti avviati.

Da un’analisi degli obiettivi portanti nella realizzazione delle ZI a livello europeo, emerge che la scelta di localizzazione di queste aree coincide, quasi sempre, con le aree carenti in alcuni aspetti ritenuti fondamentali per lo sviluppo delle aree. Questi fallimenti diventano quindi obiettivi di politica industriale da raggiungere ai fini del conseguimento degli effetti previsti. È possibile inquadrarli in sei macroaree:

  • Ricerca e sviluppo (R&S): l’innovazione tecnologica diventa uno strumento importante per aumentare la produttività e la competitività delle imprese.
  • Struttura della produzione: poiché le ZI sono un importante strumento della politica industriale, uno dei fattori necessari per raggiungere la crescita è la diversificazione economica e cambiamento strutturale. Le ZI, nel loro ruolo di catalizzatori, potrebbero promuovere il trasferimento del know how nelle aree circostanti, con un successivo aumento nei livelli di competenze e nelle attività di ricerca e progettazione.
  • Dotazioni infrastrutturali: il sostegno alle infrastrutture è uno dei principali obiettivi della politica delle ZI, in particolare in paesi in via di sviluppo. Un livello di infrastrutture (le connessioni ai principali nodi infrastrutturali e collegamenti quali i porti, le ferrovie e le autostrade) porterà certamente impatto maggiore sulla regione interessata, attirando investitori ma evitando il rischio che la ZI diventi un’enclave.
  • Ambiente: la diffusione delle ZI ha portato a diverse sfide per la regolazione ambientale in un’ottica green, le cosiddette zone eco-industriali, che applicano adeguate norme ambientali. La regolazione specifica di norme ambientali all’interno delle ZI ha infatti cercato di attenuare il legame tra attività di produzione ed emissioni di gas a effetto serra.
  • Fattori contestuali: rispetto ai fattori contestuali, il ruolo dello stato è considerato una determinante importante con il suo quadro normativo e istituzionale – strutture governative deboli o la coesistenza di troppe istituzioni possono portare al fallimento delle ZI. D’altra parte, è noto che l’impatto della ZI, a sua volta, può avere un positivo effetto sui bilanci pubblici, i cui principali vantaggi provengono sia dalle imposte sul reddito delle persone sia dall’imposta sul reddito delle società.
  • Contesto economico: la creazione di aree speciali può influenzare positivamente il livello delle esportazioni, i risultati delle imprese locali e l’occupazione, soprattutto rispetto ad altri paesi in cui non esistono IZ.

Come si vede il quadro è abbastanza variegato per uno strumento che, se inserito in un programma di politica industriale, può rivelarsi efficace per lo sviluppo territoriale.

Ulteriori approfondimenti:

Articoli correlati

Rapporti conflittuali nella triade partecipazione/ urbanistica/ populismo 

Negli articoli di questo numero si riflette sull’importanza di una rinnovata democrazia partecipativa capace di incidere nei processi decisionali urbanistici considerando anche i crescenti populismi. In questo primo contributo, si difende la necessità di una nuova ecourbanistica, sostenuta da una figura rinnovata di urbanista intellettuale, capace di confrontarsi criticamente con le pubbliche amministrazioni anche grazie alla democrazia partecipativa dell’associazionismo civico

Sulla democrazia partecipativa nei processi decisionali urbanistici

Rispondendo ad alcune domande, l’autore illustra la rilevanza che dovrebbe avere nei processi decisionali urbanistici, anche in Italia, la consultazione dei cittadini nella deliberative democracy. Citando la recente esperienza in India dell’Urban Transport Project a Mumbai e la costruzione di un’autostrada di interesse intercomunale in Francia, Sabino Cassese spiega perché lo scarso ricorso alla democrazia partecipativa a livello amministrativo sia oggi un problema, anche davanti alle diverse forme di populismo che sembrano crescere in tutta Europa.

Attualità delle procedure partecipative di Giancarlo De Carlo 

Credendo nell’importanza della partecipazione anche per l’attuale urbanistica e nella validità ancora oggi dell’insegnamento del suo maestro a riguardo, Franco Mancuso ricorda due procedure partecipative che ha vissuto con G. De Carlo, entrambe caratterizzate dalla sua fiducia nella partecipazione come momento essenziale di ogni processo di progettazione. La prima alla fine degli anni Cinquanta per la redazione del Piano Regolatore di Urbino e la seconda all’inizio degli anni Settanta per la progettazione del villaggio Matteotti a Terni.

Rallentare, venticinque anni dopo. Partecipazione, conoscenze, populismo

A venticinque anni dalla pubblicazione, la rilettura del saggio di Paolo Fareri Rallentare costituisce un’occasione importante per riflettere sulle contraddizioni e sulle ambiguità dei processi partecipativi nella pianificazione urbanistica e nelle politiche urbane, sul crinale tra processi di istituzionalizzazione e depoliticizzazione delle pratiche partecipative e indebolimento della democrazia locale connesso all’emergere delle nuove forme di populismo.

La sfida della transizione energetica e le barriere alla diffusione delle rinnovabili

Alla luce degli ambiziosi obiettivi europei di decarbonizzazione, un intervento pubblico è quanto mai fondamentale per sostenere adeguati investimenti in rinnovabili. Interpretare tale necessità solo in chiave monetaria sarebbe tuttavia riduttivo. Grazie allo sviluppo tecnologico, le rinnovabili sono una opzione competitiva e conveniente. Ciononostante, la loro diffusione risulta tuttora sottodimensionata rispetto ai target europei. Il problema non è solo finanziario, ma regolatorio. Definire un quadro istituzionale e legislativo chiaro, coerente e tempestivo rappresenta un elemento cruciale alla transizione energetica. Una transizione che deve necessariamente guadagnarsi il consenso sociale delle comunità locali.