23 Novembre, 2024

Le parallassi di Pasqui

Tempo di lettura: 8 minuti

Parrebbe che Gabriele Pasqui sappia scrivere, ma non a fare di conto. 

Ma facciamo i conti dopo, intanto vediamo che scrive.

Anche se il dispiegamento delle forze nel titolo potrebbe fuorviare, la pulsione della riflessione di Pasqui ne “Gli irregolari. Suggestioni da Ivan Illich, Albert Hirschman e Charles Lindblom per la pianificazione a venire” sta nella tensione verso le ultime parole: per la pianificazione a venire. Tutt’altro che (solo) un omaggio a tre autori che avranno segnato una personale biografia intellettuale, la domanda centrale del libro di Pasqui è come pensare le possibilità e i limiti delle politiche pubbliche e dell’azione pubblica, qui ed ora. 

Per aggredirla, il procedimento di Pasqui è di presentare dapprima il “campo” (primo capitolo), ossia di rappresentare, uno, quel “qui ed ora”, e, due, di approdare ad una formulazione più precisa della domanda sulla possibilità e i limiti dell’azione pubblica.

Il “qui ed ora” è dato da piani giustapposti, che vanno osservati come una parallasse di movimento. In primo piano, la rinnovata domanda di efficacia dell’azione pubblica spinta dallo tsunami di uno dei più grandi impegni di risorse per investimenti pubblici nei Paesi occidentali dal secondo dopoguerra, che in Europa si concretizza negli strumenti e negli obiettivi di NextGenerationEU. Su altri piani giustapposti viaggiano invece sullo sfondo gli scenari delle grandi transizioni nella rotta della civiltà umana: demografici, tecnologici (digitali, della vita, militari), quelli nelle relazioni tra specie umana e natura, e tra gli stessi umani mediate dalle tecnologie delle relazioni sociali. È una strana parallasse degenerata in cui non è detto che l’oggetto sullo sfondo non si muova più rapidamente di quello in primo piano, e in cui le interferenze d’onda dei fattori di lunga e di breve durata sono capaci di precipitare in eventi singolari che li rivelano, e perciò apocalittici, pandemia o guerra che sia, ad evocare il precipizio di Seneca, incrementa lente exeunt, festinatur in damnum…

È con questo campo sullo sfondo, che Pasqui precisa la sua domanda sull’azione pubblica, che diventa così una riflessione sulle sue “condizioni di efficacia. Anche qui, vista senza leggere il libro, l’espressione può fuorviare. Giacché mi pare di poter dire che l’essenza della tesi di Pasqui è la necessità di interrogarsi sul senso dell’efficacia, prima di ragionare delle sue condizioni. In altre parole, di assumere che non sia scontato – leggendo Pasqui in una chiave di critica epistemica –, oppure che non sia persino dato a priori – ad una lettura più radicale, potremmo dire ontologica, alla quale il testo di Pasqui comunque si presta – a che cosa quell’efficacia debba fare riferimento e con che cosa debba misurarsi. Qui, come vedremo, Pasqui traccia un invito ad una seconda “visione di parallasse”, per la quale i tre autori che ci accompagnano – Illich, Hirschman e Lindblom (in successione nei capitoli tre, quattro e cinque) – sono del tutto essenziali.

Questa problematizzazione dell’efficacia di Pasqui in primo luogo rende palese almeno tre ordini di critiche alla deriva verso la “ragione tecnocratica”, che molto ha a che spartire con le anteriori concezioni sinottiche e razional-comprensive della pianificazione: inadeguata e inadatta quanto è assunta nell’ingenua accezione apolitica dell’“efficiente” messa in relazione lineare tra mezzi e fini per governare l’incertezza e la complessità sociale, anziché riconoscere la natura radicalmente sociale delle istituzioni; dannosa e controproduttiva quando è incapace di fare i conti con l’inevitabile profondo pluralismo della società, e di far leva sulla sua intelligenza, sulle sue varietà ed autonomie, e sulla sua capacità di auto-organizzazione e autopoiesi; pericolosa quando impiegata come dispositivo di dominio, simultaneamente ideologico e repressivo, per usare una vecchia ma buona distinzione di Althusser. 

Si dà che i concetti e le parole chiave di quest’ultimo passaggio sono protagonisti del libro di Pasqui, e la sua bella intuizione è stata costruirne un’efficace economia di dispiegamento attraverso la lettura in successione dei tre autori. Una strategia espositiva dunque, oltre che l’omaggio, giacché Pasqui stesso chiarisce verso la fine del testo che si è trattato di uno scavare selettivo e intenzionale nel loro archivio, per approdare alle riflessioni sulla “pianificazione a venire”.

Dove dunque esattamente è questo approdo?

Tra molti aspetti, che spiace mutilare per limiti di spazio, il primo è la profonda convinzione di Pasqui che pianificare serve e che le istituzioni e l’azione pubblica sono imprescindibili, ché il dubbio, di cui l’autore è consapevole, sarebbe potuto sorgere in certe letture di Illich, o in alcune sbrigative di Lindblom. Tuttavia, chiarisce “[p]ianificare e programmare non è solo necessario: è inevitabile”, ma “[s]ì tratta di capire come, attraverso quale sguardo e disponendo di quali dispositivi al fine di promuovere non tanto l’efficienza, quanto l’efficacia dell’azione pubblica” (pp. 149-150).

Due, dicevamo, che questa tensione verso l’efficacia si gioca tutta sul modo di intenderla, riconoscendo che di politiche pubbliche si tratta, e che quindi ripensare la pianificazione e la programmazione comporta ripoliticizzarle assegnando al conflitto, allo scambio e alle interazioni partigiane un ruolo centrale nella decisione delle priorità, ma – e attenzione!, il passaggio è chiave – assegnando a questi anche il ruolo centrale “nella produzione delle condizioni di attuazione e di efficacia”.

Tre, che oltre all’intelligenza della società, è necessario lavorare con e sull’intelligenza delle istituzioni, e qui il riferimento di Pasqui a Donolo è ovviamente d’uopo. Qui la questione dell’efficacia incontra la sua più radicale dimensione, e la lega alla questione di fondo a che cosa servono e che cosa fanno le istituzioni.

Una via con cui Pasqui deriva la necessità delle istituzioni e dell’azione pubblica è la loro insostituibilità quale sede di governo delle forme di rischio e di incertezza societaria profonde. Circola una frase su Internet, l’attribuzione a Kant facile che sia apocrifa, che l’intelligenza di una persona si misura dalla quantità di incertezze che è in grado di reggere. Se fosse anche solo una attorcigliata e maldestra parafrasi (e non potremmo comunque leggere intelligenza e incertezza in Kant nel senso comune di oggi), non è distante dal modo in cui Pasqui ci suggerisce di pensare all’intelligenza delle istituzioni. La trasposizione alle istituzioni è vieppiù interessante perché quel reggere l’incertezza va intesa simultaneamente in entrambi i sensi della parola che gli irregolari suggeriscono a Pasqui: quella di reggerla nel senso di farsene carico (che troverebbe molti elementi di concretezza nel The Fifth Risk di Michael Lewis (2018), ma anche quella di saperla reggere nel senso di essere in grado non solo di sopportarla, ma possibilmente di giovare e da essa apprendere.

Questa in effetti è la terza e l’ultima visione di parallasse alla quale forse ci invita Pasqui, non più tanto come un puro fenomeno ottico, ma nella sua curvatura filosofica proposta da Slavoj Žižek “[L]a distanza osservata [tramite la parallasse] non è semplicemente “soggettiva”, poiché lo stesso oggetto che esiste “là fuori” è visto da due diverse posizioni o punti di vista. Piuttosto, come avrebbe detto Hegel, soggetto e oggetto sono intrinsecamente “mediati”, cosicché uno scostamento “epistemologico” nel punto di vista del soggetto riflette sempre un cambiamento “ontologico” nell’oggetto stesso. Oppure – per dirla in lacanese – lo sguardo del soggetto è sempre già inscritto nell’oggetto stesso percepito, sotto le spoglie del suo “punto cieco”, quello che è “nell’oggetto più che nell’oggetto stesso”, il punto da cui l’oggetto stesso restituisce lo sguardo. “Certo, l’immagine è nei miei occhi, ma sono anche io nell’immagine” (Žižek 2006. The Parallax View, p. 17.)

Così, interrogarsi sull’intelligenza delle istituzioni è anche misurarsi non solo sui banali fini espliciti ed intenzionali (per i quali sì, forse il sapere esperto potrebbe bastare), ma sugli effetti di secondo e terzo ordine, sui fini impliciti, sugli esiti inattesi, sull’apprendimento dall’imprevisto e dal caso, sulle esaptazioni, in altre parole sulla creazione della cultura stessa. Ci si potrebbe qui spingere anche oltre gli esiti inattesi o non intenzionali ma comunque rilevabili una volta prodotti, e chiedersi se forse non ce ne siano persino dei misconosciuti, per impiegare il termine nell’accezione che ci proponeva un altro irregolarissimo, René Girard, nella sua intuizione centrale che il problema primario di ogni cultura è il governo della violenza (interna), e che dunque la produzione delle istituzioni e delle cultura, anche quando sembra che si dedichino e facciano tutt’altro, esse in ultima istanza “servano” a quello, specie quando questa “funzione” è misconosciuta. 

Per chiuderla, facciamo invece i conti.

Pasqui non me ne vorrà, ma mi permetto di suggerirgli che abbia una mano di poker: c’è un quarto autore. Pier Luigi Crosta, il libro a lui è dedicato, non ci ha solo introdotto ai pensieri di Illich, Lindblom e Hirschman. Basterebbe inserirlo nel conteggio per quello che Pasqui già gli riconosce, il suo singolare, trespassing, ma costante e dedicato lavorio, ancorché non privo di dose di juissance, di contestualizzarli e – soprattutto – territorializzarli. 

Ma anche questo sarebbe ancora riduttivo. Gli è che a me pare che quel lavorio, forse si può parlare di una scuola (con molti compagni di viaggio, per me è stato Luciano Vettorretto), abbia prodotto qualcosa che non possiamo che riconoscere come una forma di gnosis. In fondo, non è forse che nella progressione Illich-Lindblom-Hirschman troviamo una sequenza propriamente dialettica del modo di procedere di questa gnosis?: la pars destruens nel primo, una comprensione analitica nel secondo, lo spostamento di sguardo nel terzo per trovare le condizioni di speranza, anche giocosa, del bias for hope?

Di questa gnosis, in 150 pagine nette, mi pare di poter dire, con un po’ di invidia, che Pasqui abbia condensato un’elegante ed efficace sintesi. 

Una gnosis che porta ad una forma di conversione epistemica nel modo di “vedere le politiche”, e che conduce poi ad una conversione esistenziale nel modo di “stare nelle politiche”. Un modo di stare nelle politiche è grosso modo come inizia l’ultima frase di questo libro che meritava essere scritto e che merita leggere. È del tutto opportuno che questa invece diventi la mia.

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