Nel testo “Gli Irregolari” Gabriele Pasqui affronta alcuni dei nodi più critici del dibattito che da diversi anni riflette sull’efficacia della pianificazione territoriale in contesti e processi fortemente complessi. Ci mette di fronte, ancora una volta, alla crisi dell’approccio razional-comprensivo alla pianificazione territoriale, che da tempo non sarebbe più rispondente alla complessità dei contesti urbani in cui ci troviamo ad operare (Balducci, 1991). Prima di tutto perché la pratica ci ha spesso messo di fronte all’inesistenza di una forma di conoscenza ex ante da poter mobilitare in pura forma tecnica. In secondo luogo perché la complessificazione della scena attoriale ci ha portati a toccare con mano che la conoscenza per l’azione è prodotta in un contesto interattivo in cui molteplici attori sono attivi e in rete tra loro e non sempre caratterizzati da forme di intenzionalità.
È a partire da queste due grandi questioni che Melvin Webber (1968) introduce alla pianificazione come azione fortemente processuale e come metodo per decidere. Una forma di pianificazione strategica perché saprebbe quando ‘non agire’ a supporto di processi in atto, ma senza per questo delegittimare l’intervento pubblico. Sempre Webber sostiene come la pianificazione necessiti di strumenti che possono aiutare una politica pluralista a raggiungere le decisioni secondo modalità accettabili. In questa forma la pianificazione diventerebbe parte integrante dell’attività di governo e sarebbe capace di strutturare processi e istituzioni intermedie capaci di facilitare il passaggio interattivo della conoscenza tra pratiche e istituzioni e viceversa.
Appare interessante in questo ragionamento un dibattito recente sulle forme di innovazione pubblica. In un recente articolo, Vigar e altri (2019) offrono alcune prospettive interessanti focalizzando l’attenzione sul concetto di innovazione pubblica e identificando un possibile ruolo della pianificazione urbana in questo processo. L’articolo mette al centro cinque principali ingredienti che possono favorire innovazione pubblica: in primo luogo la capacità di creare forme di collaborazione intersettoriali all’interno dell’ architettura istituzionale; la capacità di rendere operativo un approccio di lavoro istituzionale per prove ed errori, utilizzando fasi continue di testing and probing; di inserire il processo di innovazione in un’ottica di lungo periodo, considerando la variabile tempo come importante, con l’obiettivo di garantire adeguati investimenti, anche sulle risorse umane; di coinvolgere il personale interno alla pubblica amministrazione, senza i quali nessuna azione trasformativa sembrerebbe possibile; e infine, di considerare la pianificazione come all’attività che può disegnare e far funzionare legami stabili di collaborazione tra il corpo istituzionale e i corpi sociali. Seguendo questo ragionamento- nel campo della pianificazione strategica- Balducci, Mäntysalo e altri (2013) hanno usato il termine trading zones proprio per descrivere quella infrastruttura locale di condivisione di concetti e strumenti e che facilita lo scambio tra sistemi e attori che possono rimanere in conflitto.
E se queste zone di scambio tra istituzioni pubbliche e attori sociali impegnati a generare innovazione – così come all’interno dell’architettura istituzionale – fossero proprio come quegli spazi capaci di sperimentazione e accompagnare innovazione nel pubblico?
Sul concetto di co-produzione è stata prodotta negli ultimi anni una vastissima letteratura. Mentre alcuni studiosi si sono concentrati principalmente sui fattori che possono migliorare la coproduzione all’interno delle organizzazioni pubbliche (Voorberg, Bekkers e Tummers, 2015), altri l’hanno considerata come una strategia dal basso che può favorire processi co-produttivi nella pianificazione strategica (Albrechts , 2013) e che a sua volta può trasformare la macchina istituzionale e la cultura della governance (Healey, 2015).
Nell’ esperienza di campo, dentro e fuori le istituzioni, ho potuto vedere all’opera diversi spazi intermedi di pianificazione capaci- alle volte e a certe condizioni- di produrre processi coproduttivi capaci di modificare il funzionamento istituzionale e le forme di governo del territorio. E nei casi in cui l’efficacia dell’azione pubblica sembra avere un senso la politica, per dirla alla Donolo, diventa attiva: un’euristica pratica per attori e istituzioni, dove l’interazione con l’ambiente come evoluzione è decisiva, dove i presupposti normativi e istituzionali sono componenti integrali della politica stessa.
Ritorna in questo concetto il continuo riferimento di Pasqui alla necessità di ripoliticizzare l’azione pubblica, non per marginalizzare saperi e competenze, ma per rimettere al centro una postura della pianificazione (e del planner) capace di connettersi davvero alle pratiche ordinarie, attenta alle questioni di potere e quindi alle strutturazioni di forme di diseguaglianza anche nell’accesso al pubblico.
Alcuni di questi spunti possono essere forse utili anche per pensare alla figura del planner come un vero professionista riflessivo capace di credere in un’epistemologia della pratica senza perdere di vista la capacità di riflettere sul perché delle proprie azioni. Perché se potessi aggiungere al testo un’irregolare proverei con Donald Schön e il suo Professionista Riflessivo.
E non posso che chiudere con un concetto a me caro del maestro a cui questo libro è dedicato, Pierluigi Crosta: l’azione di pianificazione come uno spazio di re-intervento, un’azione in un luogo fisico e sociale che parte dalla consapevolezza che molti attori sono già attivi nella produzione di beni pubblici e cerca di facilitarne le connessioni a rete, di far circolare il capitale sociale e cognitivo già generato, di produrre politiche pubbliche accompagnando l’istituzione in un processo di apprendimento (Crosta, 2010). Una postura particolare, complicata e irregolare, come il testo di Gabriele Pasqui ci insegna a non dimenticare.
Ulteriori approfondimenti
- Pasqui G. (2022), Gli irregolari, Suggestioni da Ivan Illich, Albert Hirschman e Charles Lindblom per la pianificazione a venire. Milano: Franco Angeli – Collana del Dastu – Politecnico di Milano.
- Albrechts L. (2013), Reframing strategic spatial planning by using a coproduction perspective. Planning Theory, 12, 1: 46–63.
- Balducci A. (1991), Disegnare il futuro: il problema dell’efficacia nella pianificazione urbanistica. Bologna: il Mulino.
- Balducci A., Mäntysalo R. (eds.) (2013), Urban planning as a trading zone. Dordrecht: Springer.
- Crosta P. (2010), Pratiche: il territorio è l’uso che se ne fa. Milano: FrancoAngeli.
- Healey P. (2015), Transforming Governance: Challenges of Institutional Adaptation and a New Politics of Space. In: Hillier J., Metzger J. (eds.), Connections Exploring Contemporary Planning Theory and Practice with Patsy Healey. London: Routledge. 1-18.
- Vigar G., Paul C., Healey P. (2020), Innovation in planning: creating and securing public value. European Planning Studies, 28, 3: 521-540.
- Voorberg W.H., Bekkers V.J.J.M., Tummers L.G. (2015), A systematic review of co-creation and co-production: embarking on the social innovation journey. Public Management Review, 17, 9: 1333-1357.
- Webber M.M. (1968), Planning in an environment of change: Part I: Beyond the industrial age. The Town Planning Review, 39, 3: 179-195.