Nelle conclusioni del suo celeberrimo The Death and Life of Great American Cities, Jane Jacobs scrive: “City processes in real life are too complex to be routine, too particularized for application as abstractions. They are always made up of interactions among unique combinations of particulars, and there is no substitute for knowing the particulars”, poco più oltre, nella stessa pagina aggiunge: “To learn how things are working, we need pinpoint clues”.
Riporto queste righe da una copia del volume che mi è stata regalata da una persona che ha avuto un ruolo molto importante nella mia formazione da sociologa e che ho la fortuna di condividere con Bertram Niessen; a entrambi Serena Vicari ha insegnato a vedere i processi in atto nella città a partire dai dettagli e a individuare e raccogliere tutti gli indizi utili a esplorarne i meccanismi.
Nel libro di Niessen la tensione tra particolare e generale, tra epifenomeno e meccanismo, tra storia biografica e società emerge in maniera inequivocabile, e segna tutte e tre le articolazioni del volume.
Nella parte prima si rivela uno sguardo sulla città, che personalmente riconosco come l’esito dello studio appassionato, approfondito, intelligente che l’autore ha portato avanti da studente, da ricercatore, da docente. A partire da dettagli, storie di vita, racconti biografici e aneddoti, saggiamente utilizzati per richiamare i macro processi sociali in corso, Niessen mostra il profondo sradicamento dell’economia e delle pratiche culturali dalla società, in un ritratto spietato della città, in cui, per dirla con una battuta, il capitale vince sempre. Nel capitolo si tratta di temi quali la speculazione immobiliare, la finanziarizzazione della città, i processi di concentrazione di risorse e di capitali che rendono le persone sempre meno capaci di avere il controllo su aree molto importanti della loro vita, che hanno a che vedere col lavoro, con la casa, con le piazze e le biblioteche che frequentano.
Nella seconda parte, con una scrittura che ho trovato in alcuni tratti molto intima, si legge la necessità di individuare quei processi urbani profondi che si sono materializzati nel periodo pandemico. Nel volume, tuttavia, ben consapevole della difficoltà di esplorare un evento ancora “caldo”, l’autore identifica una serie di meccanismi che sono stati messi a dura prova durante il periodo pandemico portando “le città ad essere immobili e chi le abita ad essere pieni di crepe”. Ad esempio, nel capitolo intitolato Il grande vuoto, Niessen affronta con grande lucidità il ruolo sociale degli spazi per la cultura e le drammatiche conseguenze per la società della loro, seppur temporanea, chiusura. Dal libro leggiamo che “Frequentiamo i luoghi dello spettacolo perché ci mettono nella condizione di provare emozioni private che possono avere un risvolto collettivo” e che in questi luoghi, mescolandoci con gli altri, accettiamo “la costruzione fuggevole di un legame emotivo e simbolico che lascia sempre almeno un’eco di sé” (pp.154-155). La chiusura degli spazi per e della cultura ha lasciato crepe su chi li frequenta e ne anelava l’apertura al più presto, ma anche su chi li anima e ci lavora; se molte di queste crepe sono diventate risorse, riprendendo la metafora, a mio parere molto efficace, del kintsugi che utilizza Niessen, è ancora troppo presto per dirlo.
Della terza parte del volume, vorrei parlare non tanto i processi urbani messi in luce dall’autore, quanto della sua capacità di cogliere quella che Abdumaliq Simone (2010) identifica come cityness, concetto intraducibile, che fa riferimento alla città nel suo insieme e alle risorse degli abitanti, alla capacità delle persone, ma anche degli spazi, delle attività, e delle cose di interagire tra loro in un modo che sfugge sempre alla regolazione, alla prevedibilità e a un futuro predeterminato; il concetto richiama la capacità della città di generare relazioni di qualsiasi tipo. In questo senso, dal volume emerge un’idea quasi partigiana di cultura, che Niessen descrive come un elemento indecoroso, capace di stimolare domande, che sporchi, che ogni tanto non ci faccia dormire e che ci metta scomodi (p.232); e che possiamo intendere come risorsa vitale da un lato ed espressione dall’altro della cityness. La cultura, prosegue Niessen nella parte finale del volume, abbraccia il conflitto, è connessa con l’emancipazione sociale e politica: “far emergere le conflittualità latenti è il modo migliore abbiamo a disposizione per evitare che la violenza strutturale che si accumula negli ingranaggi della società degeneri davvero” (p.234), in altre parole, la cultura nella città è indissolubilmente legata alla cityness e alle infinite possibilità della città e dei suoi abitanti. Niessen a questo proposito è molto chiaro e presenta con forza la consapevolezza che per costruire importanti riflessioni sulla città e sui suoi processi, sia necessario partire dal riconoscimento esplicito che cultura è rappresentazione del mondo, costruzione di senso e interpretazione della realtà; analogamente, allo stesso tempo, non si può parlare di cultura senza parlare di città.
Concludo con un’ultima considerazione sul linguaggio che l’autore utilizza nel libro. Egli infatti ha il grande merito di muoversi perfettamente a suo agio in quelle che Hughes definisce come le tre lingue che dovrebbero essere praticate nella sociologia: “per poter studiare le società, sociologi e sociologhe devono conoscere la lingua delle persone che studiano: non semplicemente le parole e il loro significato secondo il dizionario, ma la lingua intesa come espressione della società e della culture; devono, naturalmente, possedere la padronanza anche di una seconda lingua, quella con cui comunicano con colleghe e colleghi. […] ma c’è anche un terzo linguaggio che a un certo punto della loro carriera sociologhe e sociologi devono imparare: quello del pubblico a cui vogliono comunicare i risultati delle loro ricerche”.
Ulteriori approfondimenti
- Jacobs, J. 1993 The Death and Life of Great American Cities 3rd edition, New York The Modern Library
- Simone, A. 2010 City Life from Jakarta to Dakar, New York, Oxon Routledge
- Hughes, The sociological eye 1984, trad. it a cura di Santoro, M. Lo sguardo sociologico, 2010, Bologna, Il Mulino