Ho scritto Abitare il Vortice (UTET, 2023) per mettere in comune strumenti da discipline diverse – studi urbani, sociologia della cultura, progettazione culturale – a beneficio di accademici, attivisti e lettori in cerca di sguardi trasversali. Non è un caso quindi che le presentazioni del libro nei primi sei mesi del 2023 siano state organizzate dai soggetti più disparati: nuovi centri culturali e dipartimenti universitari, festival e librerie, centri sociali e associazioni. Un susseguirsi serrato di incontri, discussioni, laboratori in città grandi e piccole, al Nord come al Sud: un’occasione straordinaria di confronto con la ricerca e l’attivismo urbano, con chi produce quotidianamente il sapere e le pratiche sui territori.
Provo a condividere in questo testo sei cose che credo di aver appreso da questi confronti, la cui portata va oltre la contingenza delle presentazioni di un libro.
La prima cosa che ho imparato è che l’abitare si è posto ovunque al centro della discussione sulle città, e non se ne andrà. Ovunque si parla di casa, in modo molto focalizzato. E’ un urgenza che chiede interventi straordinari di regolazione giuridica e amministrativa, a livello locale e nazionale, ma anche e soprattutto un lavoro di ricomposizione della frattura epistemica che è stata prodotta politicamente sulla casa. Come ha evidenziato Gainsforth, la casa nelle società occidentali vive una doppia natura, allo stesso tempo spazio intimo della realizzazione personale e oggetto speculativo finanziario. In tutte le città che ho visitato c’è una domanda chiarissima (di volta in volta politica, sociale, culturale) di superare questa frattura. Questo sta ampliando anche i fronti di azione politica locale: da argomento di nicchia per sindacalisti e attivisti, il tema dell’abitare sta divenendo la piattaforma di incontro anche di studenti, accademici, associazionismo che si occupa di cultura e sociale, organizzazioni del mutualismo e del settore culturale e creativo.
La seconda cosa che ho imparato riguarda il cambio di passo nella lotta alla gentrificazione. E’ sempre più chiaro che non si tratta solo di un fenomeno di speculazione immobiliare, ma anche di una forma di espropriazione del capitale sociale, culturale e simbolico prodotto dai territori che porta rapidamente allo zombie urbanism (Aspen), la ricreazione in vitro di atmosfere autentiche artificiali. Se il contrasto al primo aspetto non può che passare dal ripensamento delle forme di proprietà nelle città, stanno iniziando ad essere discusse soluzioni pratiche di strumenti e politiche per rendere più autonome le organizzazioni del terzo settore culturale, e quindi più forti nel contrastare l’espropriazione. E’ per questo che sono sempre di più i soggetti che chiedono di ri-politicizzare l’azione del terzo settore, contrastando lo “starvation cycle” che incatena la vita delle organizzazioni ai singoli progetti, impedendo lo sviluppo di una sostenibilità organizzativa. Ed è per questo che si stanno moltiplicando le iniziative per piegare le politiche alla necessità della cultura e del sociale, e non il contrario.
La terza cosa appresa riguarda l’egemonia incontrastata dell’overtourism. Da patologia eccentrica di città come Venezia e Firenze, la monocultura turistica è divenuto il modello di sviluppo territoriale unanimemente accettato e perseguito in tutta Italia. Di luogo in luogo – a seconda del colore delle amministrazioni che lo promuovono – l’overtourism prende la forma di esperienze esclusive VIP, di alberghi al neon sulle riviere, della promozione esasperata del patrimonio culturale o di “enormi imprese gastriche collettive” (Mossetti). O della combinazione di tutto questo. Il risultato di città sempre più pensate “per” e “da” i turisti rischia di trasformare radicalmente in negativo la multimensionalità della cittadinanza. “Viviamo sempre di più come city-user a casa nostra”, ha esclamato una signora durante una presentazione a Lecco. E’ evidente che sarà proprio su questa linea di frizione che andranno a svilupparsi molti dei conflitti urbani a venire.
E questo è forse il senso più profondo della quarta cosa appresa: c’è una domanda sempre più diffusa di città. Città intesa non solo come conglomerato di edifici ed infrastrutture – né solo come articolazione di servizi e procedure – ma come luogo di socialità diffusa in grado di far incontrare esperienze dell’urbano diverse. In altri termini, c’è) una nuova, enorme fame di città-come-spazio-politico e città-come-modo-estetico (Rancière). E’ all’interno di questa domanda che si colloca una certa stanchezza diffusa nei confronti dell’innovazione sociale, ai cui processi ed attori si attribuisce meno potenziale trasformativo territoriale rispetto a pochi anni fa. Questo è da imputarsi sicuramente alla loro necessaria normalizzazione all’interno delle politiche locali, ma anche ai limiti immaginativi della razionalità tecnocratica (che da sempre li caratterizza) nell’affrontare i cambiamenti sconvolgenti di questi ultimi anni, dalla Pandemia alla nuova stabilità geopolitica, passando per il cambiamento climatico.
Il quinto apprendimento riguarda la sete enorme di sapere pubblico e condiviso sulla città. La velocità e la magnitudo delle trasformazioni urbane producono unno smarrimento ed un’incertezza crescente che hanno ricadute sul piano sociale come su quelli culturale e politico. Ed è per questo che non sono più solo attivisti e specialisti a chiedere la produzione di contenuti divulgativi di qualità sulle trasformazioni delle città ma, sempre di più, anche i cittadini comuni. E’ un’opportunità straordinaria che chiama in causa la società civile, il settore culturale e soprattutto le università, che con la Terza Missione potrebbero conquistare nuove forme di protagonismo. Senza dimenticare, ovviamente, la necessità di responsabilizzare le pubbliche amministrazioni attraverso strumenti come gli Urban Center: spazi di esercizio attivo della cittadinanza ancora troppo rari e troppo poco finanziati. Quando non addirittura chiusi, come a Milano nel momento in cui scrivo.
La sesta ed ultima lezione riguarda la domanda pervasiva di nuovi immaginari urbani. In ogni città stanno proliferando incontri, tavole rotonde, sperimentazioni artistiche per pensare città diverse, in almeno tre direzioni. La prima riguarda le città nel cambiamento climatico, tra domanda di verde pubblico, nature-based solutions e nuovi rituali in grado di cogliere la complessità dell’antropocene. La seconda ha a che fare con la proliferazione di forme di urbanistica in grado di intervenire sulle disuguaglianze di genere, di classe, di provenienza geografica, di abilità. La terza, infine, riguarda le relazioni tra metropoli, aree urbane diffuse ed aree interne e periferiche, vissute, come Tantillo mette bene in luce, sempre meno come compartimenti stagni e sempre più come campi di contaminazione reciproca in un’ottica di interdipendenza.
Ulteriori approfondimenti
- Aspen J. (2015), Oslo–The triumph of zombie urbanism. Shaping the city, 182-200. Routledge.
- Gregory A.G., Howard D. (2009), The nonprofit starvation cycle. Stanford Social Innovation Review, 7, 4: 49-53.
- Lefebvre H. (2014), Il diritto alla città. Ombre Corte.
- Mossetti P. (2022), Appugrundrisse: Tornare a Napoli. Minimum fax..
- Rancière J. (2016), La partizione del sensibile. Estetica e politica. DeriveApprodi