21 Novembre, 2024

Sul principio di conservazione dell’edificabilità e su alcune sue ricadute sui territori 

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L’energia di un sistema non viene perduta nel corso di una trasformazione, ma si conserva, passando da una forma ad un’altra”: è questa l’enunciazione del principio di conservazione dell’energia che potremmo, non senza provocazione, estendere al diritto edificatorio, affermando che esso – proprio come l’energia – una volta prodotto si conserva durante tutte le fasi di trasformazione del manufatto che ha originariamente prodotto, con implicazioni spesso inattese sulle politiche di gestione del patrimonio edilizio. Vediamo perché.

Il diritto edificatorio, pur non avendo una definizione normativa, è comunemente considerato nella dottrina giuridica espressione quantitativa dello jus aedificandi (Bartolini, 2008) ovvero manifestazione ed espressione di un diritto connesso a quello di proprietà.

La sua effettiva utilizzabilità è però legittimata nell’ambito della pianificazione conformativa dei suoli, quando ad un’area viene attribuito o riconosciuto un indice di edificabilità.

Il dibattito recente sui diritti edificatori ha interessato proprio questo particolare momento, andando a comprendere i meccanismi attraverso i quali si forma e si valorizza il diritto e gli strumenti per acquisirne parte del valore (perequazione) e scambiarlo con la costruzione della città pubblica (compensazione), assumendo però come termine di vita del diritto edificatorio il momento stesso in cui esso è utilizzato e convertito in un manufatto edilizio.

E’ possibile osservare però come il diritto edificatorio abbia una vita e una efficacia ben più estese, descrivibili in almeno tre stadi: il primo, già descritto, è quello di produzione, ovvero quello che va dal momento della formalizzazione giuridico-urbanistica all’utilizzazione edificatoria. Il secondo è quello di esercizio, nel quale il diritto edificatorio è legato in forma latente all’edificio e ne supporta la legittimità. In questo stadio l’edificio può subire trasformazioni anche radicali, come la demolizione e ricostruzione, senza che il diritto subisca mutamenti. In alcuni casi si assiste ad una relazione inversa, nella quale è l’edificio stesso a legittimare un diritto edificatorio, come nel caso del patrimonio costruito antecedentemente alle autorizzazioni e ai titoli abilitativi.

Il terzo stadio, definibile di permanenza, è infine quello nel quale l’edificio perde progressivamente la sua funzione e la sua consistenza fino a divenire un rudere, mentre il diritto edificatorio continua a mantenersi legittimo, trasferibile e riutilizzabile senza limiti.

Immagine 1 – I tre stadi del diritto edificatorio 

In tutti gli stadi il diritto edificatorio si conserva a prescindere dalle trasformazioni e dallo stato d’uso del manufatto, supportando la tesi di un “principio di conservazione” (Rusci, 2021).

Da un punto di vista fiscale, ciascuno stadio ha un trattamento diverso. Nel primo, il diritto edificatorio è tassato con l’Imposta Municipale Unica, con un’aliquota che può oscillare tra l’8,6‰ e il 10,6‰ del valore venale dell’area edificabile, incidendo in maniera significativa sul valore complessivo del bene (Rusci, 2015). Nel secondo, la tassazione coincide con quella dell’immobile. Nel terzo, infine, l’immobile in stato di rudere esce dalla fiscalità divenendo una unità collabente con rendita nulla e quindi esente da imposta.

Il combinato tra conservazione del diritto e fiscalità sembra comporre in Italia un sistema di incentivo al mantenimento del rudere, come dimostrato dalla crescita sostenuta delle unità collabenti sul totale dello stock catastale (Guerrieri & Angelini, 2019).

L’eventuale rimozione di un rudere produce infatti costi connessi alle operazioni di demolizione e di smaltimento, oltre alla perdita permanente del diritto edificatorio. Il mantenimento, al contrario, oltre a evitare i costi della demolizione, conserva il diritto senza costi ulteriori, rappresentando dunque lo scenario economicamente più vantaggioso per il possessore.

E’ evidente in questo una distorsione, soprattutto se si pensa al vasto patrimonio produttivo dismesso che grava come un vero e proprio rifiuto abbandonato.

Le correzioni possibili potrebbero interessare la durata del diritto una volta dismesso l’immobile, individuando un tempo limite oltre il quale la possibilità di reimpiego decade. Oppure potrebbero operare una tassazione progressiva che agisca come deterrente al mantenimento dell’abbandono, ad esempio con una tassazione analoga a quella delle aree edificabili, che riconosca l’esistenza e il valore del diritto edificatorio.

Entrambe le ipotesi presentano implicazioni molto diverse a seconda delle specifiche condizioni territoriali. Se infatti nelle aree urbane con dinamiche di mercato attive appaiono sostenibili e virtuose, nelle aree con mercati deboli o assenti (come in molte aree interne), esse rischiano di costituire un ulteriore disincentivo al riuso. Vero è che in molte parti delle aree interne il valore di mercato di simili beni tende a zero e dunque la tassazione dei beni come delle aree edificabili si rivelerebbe nulla.

Il tema rimane aperto e suscettibile di un dibattito e di un confronto approfonditi, capaci di far emergere le contraddizioni ed i limiti che gli strumenti attuali presentano. 

Bibliografia

Bartolini, A. (2008). I diritti edificatori in funzione premiale. Rivista Giuridica di Urbanistica, 4, 163.

Guerrieri, G., & Angelini, A. (2019). I fabbricati collabenti: stock e distribuzione territoriale, Quaderni dell’Osservatorio. Appunti di Economia immobiliare, VII, 8-18.

Rusci, S. (2015). Le aree edificabili tra urbanistica e fiscalità. EyesReg, 5(5).

Rusci, S. (2021). La città senza valore. Dall’urbanistica dell’espansione all’urbanistica della demolizione. Milano: FrancoAngeli.

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