Andrés Rodriguez-Pose è stato fra i primi studiosi a mettere in luce i rovinosi effetti politici causati da divari regionali che non riguardano solo i livelli di reddito e consumo, bensì la mancanza di senso e dignità di vivere in luoghi che non contano nulla. Nelle regioni che si sentono escluse dai processi di innovazione tende così a montare un risentimento sociale e politico, che sposta l’attenzione dalle possibili vie d’uscita dalle trappole dello sviluppo, alla ricerca di un capro espiatorio cui attribuire la responsabilità dell’incapacità di crescere. Una parte di questo risentimento è in realtà giustificata, poiché è indubbio che le classi dirigenti e intellettuali hanno a lungo sottovalutato il problema dei divari territoriali, impegnandosi poco a ridurli. D’altro canto, non è cercando alibi, né rivendicando una semplice redistribuzione delle risorse che il problema si può risolvere. Gli alibi nascondono le vere cause della scarsa competitività e possono portare a processi di chiusura economica e sociale che, alla fine, peggiorano ulteriormente la situazione. Nemmeno le politiche redistributive sono da sole sufficienti: possono ridurre gli effetti delle disuguaglianze nel breve periodo, ma non intaccano le cause di fondo che riproducono i divari nel tempo, creandone semmai di ancora più insidiose, come avviene con la formazione di coalizioni distributive che sottraggono risorse ai ceti produttivi e ai progetti innovativi.
Negli articoli presentati in questa rassegna vediamo tuttavia che una strada diversa è possibile. Conoscenze, capacità, progetti per costruire originali percorsi di innovazione e sviluppo non sono prerogative riservate alle Superstar city. Galway nell’estremo lembo occidentale dell’Irlanda, il Research Triangle nel North Carolina, il sistema integrato di distretti 4.0 lungo la Via Emilia rappresentano territori competitivi che, anche senza grandi centri metropolitani, hanno saputo generare processi di crescita sostenibile e attrarre risorse umane, finanziarie e tecnologiche. Casi di questo genere sono ovviamente molto più numerosi di quanto abbiamo qui documentato. E possono moltiplicarsi grazie anche al fondamentale processo di apprendimento costituito anche dall’imitare l’innovazione che funziona. A tal fine è utile riflettere sui fattori di successo di questi casi, che possono venire raggruppati in cinque categorie. La prima è la valorizzazione di vocazioni e specializzazioni complementari a quelle delle grandi città. La contea di Galway si è specializzata negli anni in un comparto industriale, device digitali per il settore medico, lontano dal focus economico-finanziario della capitale Dublino, grande attrattore degli investimenti in servizi intangibili e sede delle principali università del paese. Analogamente, lungo l’asse emiliano ha preso corpo un modello di sviluppo che fa leva sulle vocazioni manifatturiere, trasformando la tradizione industriale in eccellenza tecnologica, come nel caso dell’automotive, del biomedicale, del wellness, dell’agrifood, della meccanica agricola, tenendosi alla larga dal mondo della grande finanza, della moda e del design, dove nell’ultimo decennio si è concentrata l’economia di Milano.
La seconda categoria è costituita dalla complessità economica: i territori competitivi che abbiamo analizzato hanno aumentato nel tempo varietà e sofisticazione delle conoscenze produttive presenti nel sistema locale, collegando fra loro distretti e servizi ad alto valore aggiunto e rafforzando a una scala più ampia le economie di agglomerazione. La complessità della conoscenza produttiva permette infatti di alimentare nel tempo i processi di innovazione, favorendo l’esplorazione di nuove frontiere competitive in ambiti di mercato che possono essere sia contigui allo spazio dei prodotti conosciuti, ma talvolta anche lontani (unrelated) dalle tradizionali specializzazioni locali.
Una terza categoria di fattori di successo è costituita dalla connettività globale, espressa in particolare dalla presenza sul territorio di imprese multinazionali e da efficaci collegamenti con il mondo esterno. Questi collegamenti sono assicurati da buone infrastrutture di base, ma anche da culture aperte all’innovazione e alle relazioni con il mondo, le quali rendono concretamente possibile raggiungere più mercati, canalizzare risorse e conoscenze esterne al sistema locale, e sfruttare le economie di scala della conoscenza.
La quarta categoria di azioni è spingere la cooperazione tra sistema educativo e sistema produttivo. Non è tanto la presenza in sé di scuole tecniche e università a garantire lo sviluppo di processi di innovazione, bensì la capacità di creare “attività ponte” con il sistema produttivo locale: compartecipazione ai centri di ricerca, laboratori di didattica attiva, incubatori imprenditoriali, coinvolgimento effettivo nella valutazione della ricerca e della didattica. In altri termini, formazione tecnica e istruzione universitaria possono diventare leve per lo sviluppo di un territorio solo se si sviluppano dialoghi strutturati e reciprocamente vantaggiosi con imprese e istituzioni locali.
La quinta categoria è costituita da una finanza che sostiene la nuova imprenditorialità e misura un interesse inclusivo con il territorio. La finanza, com’è noto, gioca un ruolo chiave nel sostenere progetti di innovazione, per definizione più rischiosi e con resa differita nel tempo. Per questo è necessario che le istituzioni finanziarie siano guidate, allo stesso tempo, da un interesse “sistemico” e da un atteggiamento favorevole a chi assume rischi su nuovi progetti di investimento. Una parte dei benefici dell’innovazione non vengono infatti appropriati dall’impresa, ma si diffondono, in quanto spillover, nel sistema produttivo locale. Perciò, solo un investitore che misura un interesse inclusivo sul territorio, non solo sulla singola impresa, può vedere il ritorno sistemico del suo investimento.
Un’agenda di politica industriale per il territorio richiede tuttavia un presupposto: che istituzioni pubbliche, sistema educativo, imprese e finanza condividano un patto implicito per lo sviluppo, investendo congiuntamente sui beni comuni per la competitività. Se le élite locali non riescono a condividere un linguaggio comune sullo sviluppo e trovare questo accordo, anche l’agenda politica più ambiziosa è destinata al fallimento.
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