3 Dicembre, 2024

Diverse prospettive di “giustizia spaziale”

Tempo di lettura: 3 minuti

Dopo più di un decennio di intensi dibattiti attorno al tema, potremmo sintetizzare la sfida della “città giusta” come un programma di ricerca e di intervento che permetta a tutti i cittadini di auto-realizzarsi, al pieno del loro potenziale. Non a caso il tema della “giustizia spaziale” (o della “città giusta”) viene invocato spesso in concomitanza con il riconoscimento di certe disuguaglianze socio-economiche percepite come deleterie, o dis-funzionali, al raggiungimento di certi obiettivi desiderabili per lo sviluppo delle società.
Secondo Stefano Moroni, le condizioni di “giustizia spaziale” non possono essere dedotte dall’osservazione diretta di certe configurazioni finali dello spazio: lo spazio non è giusto o ingiusto in quanto tale, piuttosto possono essere giusti o ingiusti i rapporti soggiacenti a certe configurazioni. Questi aspetti, che sono strettamente connessi a una prospettiva di institutional design sono essenziali per capire i problemi in gioco e affrontare importanti questioni sulle misure necessarie per tutelare i cittadini e i loro diritti sociali di base (ad esempio, libertà civili, economiche, politiche).
Lavorare all’interno del paradigma di una idea di “spazio (più) giusto” non può prescindere da una revisione critica dei propri assunti, compresi i pregiudizi che permeano ogni disciplina. In quest’ottica, il contributo di Sarah Chiodi, Erika Kneib e Marcelo Ribeiro esplora come e in che misura il raggiungimento di tali obiettivi passino anche dal progetto pedagogico, soprattutto a livello universitario. Diverse facoltà di Architettura e Urbanistica nel mondo sono oggi interessate a contribuire a sostanziare il diritto alla città, in varie declinazioni, e soprattutto in termini di “funzione sociale della proprietà”.
Dai lavori di Stefano Cozzolino si comprende infatti come lavorare attorno ai diritti e doveri della proprietà non possa prescindere dalla necessità di lavorare per una distribuzione ampia e diversificata delle responsabilità progettuali. Il punto qui è comprendere come garantire un certo potere di azione e controllo sull’ambiente costruito, possibilmente distribuendo e adattando tali capacità alle più diverse volontà, ambizioni, risorse e preferenze degli attori urbani. L’idea che solo un intervento esterno possa calmierare (o del tutto evitare) certi effetti deleteri del vivere insieme, non è priva di costi e conseguenze.
Claudia Basta, ci invita a sviluppare un ragionamento più critico attorno a modelli eletti di “città giusta”. Delegare il destino dei territori in mano a pochi e soliti players (culturali, economici, epistemici, politici), lavorare all’interno di idee preordinate di “buono” e “giusto”, rischia di indurre – scholars e practictioners – alla rievocazione di antichi pregiudizi (ed errori fatali) su criteri distributivi e redistributivi per un modello di città, probabilmente inesistente e per certi versi indesiderabile.
Appare chiaro che attorno alla riflessione sulla “giustizia spaziale” si snodano importanti sfide istituzionali, culturali, progettuali, e (re)distributive.
Un progetto di “giustizia spaziale” potrebbe richiedere di riconoscere che non tutte le disuguaglianze socio-economiche sembrano dipendere dalla mera scarsità di risorse, ma anche dall’inibizione dei processi da cui l’esistenza di tali risorse dipende. Considerando l’Italia, e diverse altre parti del mondo, il mancato o ritardato sviluppo di certe aree non sembra essere solo la causa (o ragione) di una forma di “ingiustizia” territoriale, ma anche l’effetto (o impatto) di una serie di distorsioni delle “regole del gioco” essenziali per la prosperità socio-economica (si pensi all’impatto profondamente negativo della corruzione). Tali argomenti toccano anche aspetti deontici, con cui amministrazioni, progettisti architettonici e urbani, policy-makers, consulenti e analisti di varie estrazioni, devono fare i conti. In sunto, in questo editoriale vorremmo suggerire che, tanto più saremo disposti a proteggere certi i diritti sociali essenziali, dandone forma a livello empirico, integrandoli nei percorsi formativi/culturali, distribuendoli ed estendendoli nel tempo, tanto più sarà possibile “rendere giustizia” laddove serve di più.

Figura 1 – Piazza Massena, Nizza (2021) @ Anita De Franco

Articoli correlati

Oltre il contributo d’accesso, per un modello sostenibile di turismo

L'introduzione del contributo d'accesso per i turisti a Venezia ha avuto un effetto boomerang, aggravando i problemi esistenti. Questo intervento, pensato per gestire la pressione turistica, si è rivelato inefficace e controproducente. Venezia, simbolo dell'overtourism, ha visto peggiorare il tessuto sociale e produttivo, con disuguaglianze amplificate e residenti penalizzati. La vera soluzione richiede un futuro economico sostenibile e una regolamentazione più rigorosa del settore turistico, superando l'attuale modello predatorio.

Conto alla rovescia: posti letto e residenti in una città a breve termine

La sperimentazione del contributo d’accesso a Venezia, introdotta per mitigare l'impatto del turismo giornaliero, ha suscitato molte critiche e non ha ridotto la pressione turistica. Le polemiche evidenziano come la misura sembri mirata a capitalizzare i flussi turistici piuttosto che limitarli e non affronti i problemi causati dall’aumento delle locazioni brevi, che superano i posti letto dei residenti. La gestione dell’overtourism richiede interventi complessi e a lungo termine, centrati soprattutto sul tema dell’abitare, per contrastare la trasformazione di Venezia in una città esclusivamente turistica.

Il Contributo d’Accesso come misura di visitor management: il caso di Venezia

Il visitor management propone una varietà di misure in grado di monitorare, informare, influenzare e guidare il comportamento dei visitatori all’interno di diversi contesti come le destinazioni turistiche. Queste misure rispondono a necessità mirate e strutturali per la destinazione che possono contribuire al miglioramento della vivibilità; tuttavia, considerate di per sé non rappresentano un approccio di governance in una visione di sviluppo sostenibile. Il caso del contributo di accesso di Venezia viene utilizzato come caso di discussione.

Progettare città per essere (più) umani

Il comportamento è influenzato dalle nostre biografie individuali e dalle relazioni, sia sociali che con l’ambiente: la personalità che ne deriva si elabora, così, su memorie consce ed inconsce. Queste relazioni modellano le esperienze e il loro ricordo. Molti studi interdisciplinari hanno indagato su come lo spazio influisce sulla personalità, le relazioni, le emozioni e la memoria. La forma urbana agisce sulla coesione sociale, spesso non soddisfacendo i bisogni umani più naturali. È essenziale integrare, perciò, neuroscienze e psicologia ambientale nell'urbanistica per migliorare la qualita del costruito. Tre aree chiave sono la pianificazione, la cura degli spazi aperti e degli edifici, finalizzate alla inclusione sociale, alla sicurezza e ad un’idea di sostenibilità estesa anche al benessere psicofisico dei cittadini.

Invecchiare in città

I dati OCSE rivelano un aumento significativo della popolazione anziana nelle città dovuto all'aumento dell'aspettativa di vita e al calo dei tassi di natalità. Questo cambiamento demografico richiede che le città si adattino per rispondere ai bisogni diversi di una popolazione invecchiata. L'invecchiamento influisce sulla capacità di attenzione e sull'adattamento ai rumori urbani, rendendo la vita in città più difficile per gli anziani. Una pianificazione urbana inclusiva dovrebbe ridurre le complessità decisionali e i livelli di rumore, beneficiando così tutti i cittadini.