Che si voglia chiamarli spazi ibridi, spazi piattaforma (1), o hub di comunità, la centralità e il protagonismo crescente che queste nuove realtà, sempre più diffuse nelle nostre città, hanno conquistato nei processi di innovazione sociale e nella complessa sfida per la città della prossimità, è ormai un fatto acquisito.
Il motivo per cui si parla di spazi ibridi è connesso alla dimensione di ibridazione e trasversalità che investe questi luoghi sotto una molteplicità di punti di vista: la flessibilità dell’offerta sociale e culturale, la fluidità dei modelli di governance e la commistione di forme giuridiche che li sorreggono, l’eterogeneità della composizione dell’utenza, fino alla multifunzionalità nella gestione degli spazi. Sono spazi in continuo divenire, le cui identità sfuggono a categorizzazioni consolidate. Per questo motivo restano ancora esclusi dalle pratiche di pianificazione territoriale delle politiche pubbliche da parte di larga parte dell’amministrazione, che fatica ad afferrarne fino in fondo la portata degli impatti, tanto sociali quanto economici. Ed è così che molti di essi rimangono relegati in quella zona d’ombra tra il visibile e l’invisibile. L’aspetto che più di ogni altro contraddistingue questi spazi è la loro accessibilità. Si tratta di luoghi “aperti”. Non solo dal punto di vista degli orari – alcuni lo sono addirittura 20 ore su 24, 7 giorni su 7 –, ma soprattutto per la loro accoglienza, generosa e gratuita. Queste piazze sui generis, restituite ai quartieri e alle città, sono i nuovi presidi della socialità e della partecipazione: una socialità libera – per quanto possibile – dalle logiche del consumo e del mercato, di cui si può godere senza il pagamento di un biglietto o di una consumazione.
Molte di queste esperienze nascono dal recupero del patrimonio immobiliare pubblico e privato, in stato di abbandono o confiscato alla criminalità organizzata. Restando a Milano, gli spazi ibridi occupano ex edifici industriali (è il caso di BASE), ex convitti (come il recente Punto di Comunità promosso a Milano), ex cascine (guardando all’esempio di Mare culturale urbano), ma anche giardini, serre, palestre e molto altro.
Sono organizzazioni che non si riconoscono nelle rigide forme giuridiche ereditate dal novecento – Musei, Teatri, Fondazioni – ma sono nate da patti fiduciari e alleanze di intenti tra soggetti diversi, grazie ai quali possono disporre di una sede a un canone concordato, in rari casi a titolo gratuito. Se si tratta di edifici privati, sono spesso costrette ad adeguarsi ai valori di mercato.
I soggetti gestori si organizzano in team di lavoro fluidi e sperimentali, avvalendosi di un proficuo intreccio di profili e competenze, la cui attività progettuale è soggetta a continue revisioni, secondo uno schema di prova ed errore che diventa necessario per l’adattamento agli specifici contesti di intervento. Essi si costituiscono in una innovativa varietà di forme giuridiche del profit e del non profit, anche optando per una commistione tra queste due allo scopo di ottimizzare le risorse.
L’offerta aggregativa e culturale degli spazi ibridi si basa su un palinsesto multidisciplinare, orientato al contemporaneo e rispondente ai bisogni del territorio. Coworking diventano ciclofficine, sartorie, falegnamerie e repair café, mentre ristoranti e bar mutano in spazi espositivi, sale da ballo e da concerto. Le biblioteche possono ospitare presentazioni di libri, laboratori di riuso creativo e mercatini orientati al consumo consapevole e all’economia circolare. Per la loro volontà di fornire una risposta alle specificità dei vari contesti, lavorano costantemente a una possibile innovazione di processi. Sviluppano nuovi sistemi di coinvolgimento e di empowerment della comunità riuscendo, in alcuni casi, a promuovere un dialogo intergenerazionale che rifiuta distinzioni di età, provenienza, genere e cultura. Lavorano per un’idea di città inclusiva votata a dare priorità agli abitanti, creando opportunità di lavoro, rivitalizzazione economica, sociale e ambientale di quartieri e città.
La particolarità degli spazi ibridi, dai contorni sfumati e in continua evoluzione, li costringe spesso a scontrarsi con logiche amministrative e regolamentazioni obsolete. Rimane ancora difficile per molti di essi l’accesso ai permessi necessari allo svolgimento delle attività – quali la somministrazione di cibo e bevande, di pubblico spettacolo, di servizio di sicurezza – necessarie ad assicurare lo svolgimento delle funzioni e la loro sostenibilità economica.
Gli spazi ibridi promuovono processi di advocacy di corpi intermedi tra le istituzioni pubbliche e i soggetti locali, restituendo il ruolo di protagonismo attivo ai cittadini. Sono i motori di attivazione di processi di coesione sociale, di rigenerazione del tessuto urbano, di sviluppo economico in un’ottica generativa attraverso la promozione della cultura locale e della capacitazione della cittadinanza.
La sostenibilità degli spazi ibridi si basa su un fundraising mix in grado di unire investimenti privati, finanziamenti pubblici, contributi di fondazioni bancarie, enti filantropici e ricavi da attività di somministrazione, commerciali e campagne di crowdfunding.
A Milano lo scenario degli spazi ibridi si è arricchito durante l’emergenza pandemica. Nel 2020, è nata una rete informale di 26 realtà socio-culturali che hanno sottoscritto un documento allo scopo di promuovere la loro identità, diffondere gli impatti generati sui territori e portare alla luce una serie di criticità emerse nella complicata gestione degli spazi.
Il documento Gli spazi ibridi di Milano. 1 Manifesto, 1 questionario, 1 mappa per la città a 15 minuti è stato il punto di partenza per una proficua interlocuzione con l’amministrazione comunale che, nel 2022, ha ufficialmente riconosciuto il ruolo assunto da questi spazi come terminali di prossimità e agenti promotori di welfare.
In via sperimentale l’amministrazione ha istituito l’elenco “Rete Spazi Ibridi della Città di Milano” composto da 20 realtà selezionate tramite un avviso pubblico aperto fino al 2026. La Rete rappresenta una sede di confronto e un incubatore di progettualità. L’obiettivo è di promuovere nuove politiche pubbliche esito di processi di co-design tra pubblico, privato e terzo settore che possa trovare spazio soprattutto nelle zone più marginali della città.
Appare assai azzardato ipotizzare che questi spazi possano fornire, da soli, una risposta conclusiva alla crescente polarizzazione economica di “una città che corre a gran velocità”, che lascia indietro quella parte consistente di popolazione alle prese con il diritto alla casa, e redditi adeguati al costo della vita. Risulta tuttavia urgente e necessario “ascoltare e sostenere il loro contributo importante per la città” come spiega, nell’intervista che segue, Annibale d’Elia, della Direzione Economia urbana, Moda e Design del Comune di Milano, “senza gravarli di compiti che non spettano loro e che non potrebbero assolvere”.
Ulteriori approfondimenti
Cacciari P., “101 piccole rivoluzioni. Storie di economia solidale e buone pratiche dal basso”, Altreconomia, 2016
Inti I., “Pianificazione Aperta. Disegnare e attivare processi di rigenerazione territoriale, in Italia”, LetteraVentidue, 2019