Il disegno di differenziazione, per il sovraccarico ideologico che lo affatica, ha suscitato aspri contrasti, lungo linee di frattura, non solo territoriali, ma anche politico-partitiche. La polvere sollevata dalle armate in battaglia ha occultato uno sviamento di funzione della prefigurata legge di attuazione dell’art. 116, c. 3, di cui è traccia nella pretesa di utilizzarla per la “restituzione del residuo fiscale” da parte delle Regioni con minor capacità fiscale (collocate nel Mezzogiorno d’Italia) a quelle con capacità fiscale maggiore.
Lo sviamento è però di ben più ampia portata: la legislazione di differenziazione è concepita come strumento per rimaneggiare la fiscalità locale, laddove essa dovrebbe essere rivolta a razionalizzare il riparto delle competenze.
La riorganizzazione della fiscalità locale è invece compito proprio della legislazione attuativa dell’art. 119 Cost. (un obbligo costituzionale finora largamente disatteso), alla quale è stato dato corso con la legge n. 42 del 2009, ma che è ora su un binario lento (anzi, per alcuni altri rilevanti aspetti, è stata devitalizzata: gli inadempimenti del Governo hanno infine condotto a definanziare per oltre quattro miliardi di Euro gli interventi destinati alla perequazione infrastrutturale del Mezzogiorno, che quella legge aveva previsto e la legge finanziaria per il 2021 aveva coperto). Quel disegno prevedeva di superare il criterio del finanziamento della spesa storica, introducendo per converso i concetti di “costo standard” e “fabbisogno standard”, coordinandoli con la previsione di adeguati fondi perequativi. A oggi il processo di individuazione dei fabbisogni standard regionali non è certo fluido; ed è largamente carente la definizione dei LEP e dei relativi fabbisogni standard: prive di pregio, da questo punto di vista, le risultanze consegnate al Documento finale elaborato dal Comitato tecnico scientifico con funzioni istruttorie per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (CLEP), presentando le stesse vizi di metodo e ricostruttivi che ne inficiano irrimediabilmente il fondamento.
Ora, in un mondo in cui fosse sovrano un legislatore sempre orientato a ragionevolezza, verrebbe prima portato a compimento il processo legislativo di attuazione dell’art. 119 Cost., in modo da offrire un quadro di riferimento saldo a processi di ridislocazione, anche differenziata, di funzioni verso le Regioni, in attuazione dell’art. 116, c. 3, Cost. Ma poiché un tale legislatore ideale non esiste, si è prodotto un vistoso cortocircuito tra la disciplina incompiuta discendente dalla legge n. 42 del 2009 e la disciplina vagheggiata di differenziazione.
È in un simile tornante che forse sarebbe stato opportuno mettere in opera una sequenza decisoria in grado di arrivare a esito senza produrre lacerazioni e disfunzioni, adeguato a produrre un processo di integrazione politica in un quadro segnato da fortissime contrapposizioni e a superare alcuni vistosi scostamenti dal dettato costituzionale della proposta legislativa oggi in campo.
Il d.d.l. A.S. 615, approvato dal Senato il 23 gennaio 2024, tenta infatti, vanamente, di risolvere il problema di stabilire princìpi vincolanti il Governo nella fase di negoziazione con le Regioni, per non ridurre il Parlamento a sede di mera ratifica. A tal fine, prevede l’avvio di un «negoziato» tra Governo e Regione, che conduce a uno schema di intesa preliminare, poi approvato dal Consiglio dei ministri e trasmesso alla Conferenza unificata. Dopo il parere di questa, lo schema passa alle Camere, che si esprimono con atti di indirizzo. Il Presidente del Consiglio predispone a questo punto lo schema di intesa e lo trasmette alla Regione interessata, che lo approva e lo restituisce al Governo. Il Consiglio dei ministri lo delibera come «schema di intesa definitivo» insieme a un disegno di legge di approvazione, sul quale, infine, le Camere deliberano costrette dentro l’alternativa radicale tra approvare integralmente o respingere integralmente.
Vi è un tratto decisivo di debolezza sistemica della modalità stessa di intervento con lo strumento di leggi quale quella adombrata dal d.d.l. 615: questa, infatti, essendo legge ordinaria, è destinata a poter essere da queste innovata, in tutto o in parte, espressamente o implicitamente, e a poter essere in ispecie innovata o derogata con la legge di approvazione delle intese, della quale non può costituire parametro, né quanto ai contenuti né quanto a procedimento formativo. Diventa perciò ineludibile il problema dell’irrigidimento in parametro di regole prodotte per definire tale procedimento.
Una soluzione a tale problema poteva essere l’impiego della delegazione legislativa. Nello schema di produzione definito dall’art. 76 Cost., la legge delegante ripete infatti la propria rigidità dalla norma costituzionale, poiché vale a integrarla come parametro di legittimità del decreto legislativo delegato. Ciò vale sia per il contenuto materiale di quest’ultimo, sia per il suo procedimento di formazione.
Sulla base di una visione astratta, la delega è stata da taluno esclusa dal novero delle possibili soluzioni attuative dell’art. 116, c. 3, Cost., in quanto intesa a far recedere il Parlamento nel processo di integrazione politica culminante nella decisione legislativa. Ma un tale convincimento va rimeditato. E proprio la vicenda dell’autonomia regionale invita a farlo. È bene, invero, conservare memoria dell’impiego delle deleghe per i trasferimenti di funzioni dallo Stato alle Regioni di maggiore dimensione e “successo” (legge n. 382 del 1975 e decreto delegato n. 616 del 1977), poiché l’esame di quelle vicende mostra sequenze di produzione tali da attribuire al Parlamento ruolo maggiore nella determinazione dei contenuti della legge delegata, pure ascritti formalmente al Governo. Lo strumento per garantire la preminenza parlamentare – ampiamente sperimentato – è quello del doppio parere delle Commissioni, su un primo schema di atto delegato e poi su un secondo, deliberato dal Governo sulla base delle prime indicazioni. La maggiore o minore intensità del vincolo a carico del legislatore delegato dipende ovviamente dallo stato delle relazioni Parlamento-Governo; ma l’esperienza rivela un’intensità crescente per la legislazione «ad alta valenza riformatrice».
Ora, nella specie dell’attuazione dell’art. 116, c. 3, Cost., la «legge dello Stato» di approvazione delle intese potrebbe ben essere, in linea di principio, un decreto legislativo delegato; tuttavia, la scarna disciplina costituzionale sulla legge approvata sulla base di intese renderebbe necessario definire una modalità della delega allineata agli artt. 72, 76, 116, c. 3, Cost.
L’art. 116, c. 3 stabilisce che «la legge» di conferimento di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» è «approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata». Non sembra dubbio che «sulla base» non equivalga a «in conformità»: pertanto, il processo che conduce alla conclusione dell’intesa può ben intrecciarsi con il procedimento di produzione della legge, purché le Camere siano sempre chiamate a deliberare a «maggioranza assoluta dei componenti». A maggioranza assoluta dovrebbe essere perciò approvata la legge di delega al Governo a stipulare le intese.
Possono prevedersi alcune obiezioni. Quanto all’art. 76, si potrebbe sollevare la questione del carattere «nuovo» del potere affidato al Governo in forza della delegazione, sostenendo la preclusione per il delegante di limitare il potere delegato oltre la soglia dello svuotamento. Ma in un contesto tanto potenzialmente accidentato, per la qualità dei soggetti partecipanti e per la peculiarità del meccanismo delle previe intese, in cui il processo di integrazione politica è connotato da una complessità difficile da “addomesticare” in un adeguato procedimento di produzione legislativa, una lettura sistematicamente integrata degli artt. 116, c. 3, e 76 Cost. consente di concludere per la praticabilità dell’ipotesi proposta. Il Governo, invero, avrà, nel processo di produzione legislativa, un ruolo sostanziale di raccordo tra i soggetti “partecipanti” e “stipulanti”, da una parte, e il Parlamento dall’altra, ben lontano da funzioni di mera ratifica.
Quanto all’art. 72, considerato che il parere conforme può essere ritenuto espressione del potere sostanziale di deliberare infine la legge, torna l’obiezione del divieto di «deferire a commissioni» l’approvazione di «leggi in materia costituzionale». Obiezione che vale se a tale ultimo novero venga ascritta la legge di attribuzione di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» ex art. 116, c. 3. Ma si potrebbero ritenere queste leggi come «materialmente costituzionali» solo se a esse venisse ascritta la possibilità di modificare l’ordine delle competenze definito dall’art. 117 Cost., mentre una corretta considerazione dell’art. 116, c. 3, laddove è detto di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» concernenti le materie, non legge la possibilità di dislocare le materie, ma soltanto alcune funzioni in esse rientranti: per arrivare al primo risultato occorrerebbe una legge di revisione costituzionale. Non essendovi, dunque, coinvolgimento di «materia costituzionale», non v’è divieto di procedimento decentrato.
La soluzione proposta avrebbe avuto anche il pregio di consentire una integrazione tra attuazione dell’art. 116, c. 3, Cost. e processo di messa in opera delle deleghe contenute nella legge n. 42 del 2009; avrebbero potuto trovare poi campo la determinazione dei LEP con atto di rango legislativo e, tra i princìpi stabiliti dalla delega, la definizione dei modi del loro finanziamento, auspicabilmente tenendo conto delle finalità perequative e di riduzione dei divari territoriali.
Ora, la scelta di avvalersi dello strumento della delega è avvenuta per effetto di una saggia determinazione della Prima Commissione del Senato nel procedimento di approvazione del ddl 615, ma limitatamente alla definizione dei LEP e con la discutibile statuizione per relationem di princìpi e criteri direttivi (mediante rinvio alla legge 197 del 2022).
Un barlume di ragionevolezza in uno scenario molto confuso, nel quale due connotati della legge prefigurata vengono in luce: incostituzionalità e inapplicabilità.