Nonostante lo spopolamento e il de-giovanimento della popolazione residente, nei paesi delle aree interne italiane si continua ad abitare, a fare progetti, a manifestare bisogni, a sognare. A praticare la «restanza», ad assumere cioè un atteggiamento che unisce la scelta di restare e la volontà di promuovere cambiamento, superando la tentazione della rassegnazione e dell’exit. Anche nelle campagne in via di desertificazione umana, ci sono giovani e famiglie che hanno deciso di rimanervi a vivere, e altri resterebbero se si creassero le condizioni minime per perseguire progetti di vita dignitosi, adeguati alle aspettative di benvivere. Per sostenere il radicamento e favorire nuovi arrivi, è tuttavia necessario “invertire lo sguardo”, decostruire il paradigma dominante urbanocentrico, rovesciare i vincoli in opportunità. Pensare la rarefazione demografica come alternativa alla congestione urbana; i paesi in semiabbandono come occasione per accogliere nuovi abitanti, anche temporaneamente, e per ricostruire tessuti sociali strappati dall’emigrazione; l’agricoltura di piccola scala per valorizzare la policoltura e la multifunzionalità; il deficit produttivo per avviare nuove economie circolari, sostenibili, ecologiche e per rivivificare vecchie produzioni attraverso l’applicazione di tecnologie di frontiera; i terremoti e le frane endemici per avviare e sostenere nel tempo investimenti pubblici e ricerca applicata per ridurre insicurezza e abbandono; l’Appennino interno come occasione per attrarre turisti alla ricerca di connessione con la natura; la “lentezza” come guadagno di tempo per abitare lo spazio.
Sul piano delle politiche, occorre mettere in discussione e superare il totem della densità e dello standard. Emanciparsi dall’ossessione novecentesca fordista del tot, del conseguimento di lotti produttivi elevati per garantire contenimento dei costi unitari e alimentare mercati di massa. Negli ultimi decenni di liberismo la sua applicazione si è estesa a tutti gli ambiti della vita civile oltre che economica: dalle città alle scuole, dagli ospedali agli impianti sportivi, dagli uffici alla distribuzione di merci, si è via via consolidata la corsa verso il grande, il mega, il metropolitano. Un numero minimo di alunni per classe e istituto scolastico, una soglia minima di parti annui per reparto di ostetricia, un certo numero di abitanti per la farmacia, per la caserma dei carabinieri, per l’ufficio postale, lo sportello bancario e così via. Tendenzialmente soglie elevate e fisse, a prescindere dalla densità demografica, dalla geografia e dalla topografia dei contesti. Il sogno di una società normocentrica, di teatri fittizi che semplificano la realtà, di riduzione a un numero la grande varietà fisica, umana, ambientale. La normatività del tot ha alimentato la spirale regressiva demografica: meno servizi perché poco convenienti dove ci sono pochi residenti inducono i restanti che ci sono all’abbandono, ma meno abitanti «giustificano» il taglio dei servizi e così via, fino alla scomparsa definitiva del paese e del costrutto di capacità, abilità, saper fare taciti stratificatesi nel tempo. Inoltre, la logica del tot impoverisce il senso delle politiche, sposta l’attenzione dai bisogni che dovrebbero soddisfare all’efficienza organizzativa e finanziaria, anche se il diritto a curarsi, a studiare e viaggiare di quanti vivono in aree demograficamente rarefatte non sia meno legittimo di quello dei cittadini delle città, ma è più difficile da soddisfare applicando lo standard. Accade, allora, che il diritto si piega all’approccio utilizzato per definire le politiche, che le esigenze del bilancio finanziario vengono prima dei bisogni, che il numero venga prima delle persone.
Per uscirne bisogna riconoscere valore alla restanza e cambiare radicalmente il modello di definizione degli interventi territoriali.
Politicizzare la “restanza” vuol dire innanzitutto legittimare la scelta di quanti sono rimasti nei piccoli paesi dell’interno, non giudicarla perdente. Significa anche riportare a galla nel dibattito pubblico la rilevanza sociale, civile ed economica di un’Italia estesa volutamente nascosta e a cui per molto tempo le politiche e l’opinione pubblica hanno voltato le spalle. Significa riconoscere che la marginalizzazione della campagna e delle aree interne è frutto di scelte politiche intenzionali, “cieche alle persone nei luoghi”, e che deficit, carenze e debolezze si cumulano e rinforzano vicendevolmente, rendendo inefficaci interventi su una singola criticità. Vuol dire ripensare le politiche pubbliche centrali, perseguendo forme di cooperazione istituzionale con i livelli locali, anche per rafforzare la “voce” delle comunità disperse e dei loro rappresentanti istituzionali, in primo luogo dei sindaci, e creare le condizioni per far emergere e sostenere le visioni di futuro dei residenti. Significa dotare queste aree di un’offerta adeguata di servizi di cittadinanza, oggi ridotti all’osso e in ulteriore contrazione. Per le aree demograficamente rarefatte poco servono servizi standard, disegnate per le aree piene, per le città. Si prenda, a mo’ esempio, la questione della scuola. In molti piccoli e piccolissimi paesi spesso il numero di bambini non è sufficiente per la formazione di una classe ordinaria, sicché si è obbligati a dare vita alle pluriclassi. Il più delle volte dalla prima alla quinta classe della scuola primaria, anche se la formazione delle pluriclassi si sta estendendo anche alla secondaria di primo grado. Le pluriclassi sono particolarmente impegnative e talvolta oggettivamente penalizzanti per gli alunni, oltre che per gli insegnanti. Apprendere e crescere in una classe con pochi alunni e appartenenti a età e anni scolastici differenti è tutt’altra cosa rispetto al farlo in classi ampie con alunni coetanei e dello stesso livello scolastico. Tuttavia, si può accettare la pluriclasse per non perdere la scuola, e destrutturare ancor la già fragile presenza di istituzioni sociali locale, ma a patto che i maestri siano debitamente formati a fronteggiare e adattare sistematicamente il disegno formativo agli esiti concreti, e allenati a osservare gli effetti, i cambiamenti e le stratificazioni delle pratiche più che le intenzioni astratte della politica scolastica. A imparare dai fallimenti e a districarsi tra le difficoltà che si manifestano nel processo formativo nelle pluriclassi. Perché questa accada servono politiche formative mirate per gli insegnanti, e, quindi, un coinvolgimento delle università e della politica scolastica nazionale, ma serve anche che nella decisione dell’istituzione delle pluriclassi e, in generale, della vita delle scuole venga coinvolta attivamente le comunità locali. Guardare l’Italia dal margine è dunque un modo per produrre cambiamenti, innovazioni e riforme necessarie per l’intero Paese.
Ulteriori approfondimenti
Cersosimo D. e Licursi S. (2023), a cura di, Lento pede. Vivere nell’Italia estrema, Donzelli, Roma.
De Rossi A. (2018), a cura di, Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Donzelli, Roma.
Teti V. (2022), La restanza, Einaudi, Torino.