L’Italia è fatta di tante “aree interne” che hanno subito lo spopolamento e che hanno visto intere famiglie migrare, e altre rimanere. Luoghi che spesso, proprio perché “spopolati”, non sono stati deturpati dalla cementificazione e dagli abusi edilizi, mantenendo la bellezza originaria. Ma anche luoghi che non hanno potuto conservare il fascino di un tempo, e che, con le loro ferite, testimoniano non solo lo spopolamento ma anche la violazione del bello e l’interruzione di una storia. Chi se ne va porta infatti con sé un pezzo di storia, e il territorio spopolato, smettendo di “parlare”, perdendo la sua “voce”, non ha più l’opportunità di essere ascoltato e conosciuto.
Nelle aree interne parlare di spopolamento e di restanza vuol dire raccontare le storie di chi ha lasciato la propria terra, di chi non l’ha mai abbandonata, e di chi vivendoci è ancora capace ad accogliere, in una società in cui si è fuggevoli anche con sé stessi. Vuol dire riflettere sui luoghi e sulla “bellezza”, come attrattore turistico culturale e come variabile che può incidere sul rimanere, e sul diventare un cittadino responsabile. Vuol dire conoscere “il bello” per poter riconoscere il “brutto”, l’incompiuto, l’abbandonato e scegliere o meno se porvi rimedio, iniziando a rispettare e valorizzare il territorio in quanto “bene comune”. Ma vuol dire anche riflettere sull’importanza della “parola”, che sta alla base dell’interazione tra esseri umani, che si esprime nel racconto suscitando emozioni in chi ascolta, perché si sente accolto.
Voglio provare a parlare di “bellezza e spopolamento, accoglienza e parola” in un’area interna calabrese dove vivo con la mia famiglia, quella Grecanica, culla della grecità. Un territorio fatto di undici piccoli comuni, alcuni rimasti in montagna, altri duplicati nelle marine, altri ancora divenuti fantasma. Luoghi in cui la bellezza può ancora contrastare lo spopolamento e la parola può ancora accogliere.
Kalós kái Agathós è un’espressione in greco antico che può essere tradotta letteralmente come “bello e buono”. Nell’estetica greca arcaica, il bello è considerato una delle tre categorie supreme di valori, insieme al vero e al bene. È associato alla perfezione formale e all’armonia visiva, ciò che è bello è dunque tutto ciò che rispecchia l’ordine interiore in una forma ordinata esteriore. Il concetto di Agathós è strettamente legato al bello. Pertanto, per gli antichi Greci il bello non è solo una questione di aspetto esteriore, ma anche di virtù morali, e un oggetto o una persona possono essere considerati belli solo se sono anche buoni.
Nell’Area interna Grecanica dove gli antichi Greci hanno lasciato in eredità la loro lingua, il concetto di bellezza è intrinsecamente legato a quello di bontà, e il concetto di accoglienza a quello di parola. Precisamente a una particolare parola “filoxenìa”, l’amore per il forestiero. La massima espressione dell’accoglienza, principio etico fondamentale per distinguere l’uomo “selvaggio”, come diceva Ulisse, da quello “ospitale e giusto”.
Ma quanto questo concetto di bellezza intrinsecamente legato a quello di bontà ha contaminato l’Area interna grecanica? Quanto pesano la bellezza e la parola sulla restanza e sull’accoglienza e come concorrono a contrastare lo spopolamento?
Tra i tanti comuni calabresi le cui esperienze di comunità contrastano con una rappresentazione negativa della Calabria, spesso diventata “capro espiatorio” d’Italia per colpe non sue, si erge maestosa su una rocca a 900 metri s.l.m, Bova, un piccolo comune dell’Aspromonte greco calabrese, area interna periferica, la cui popolazione è stata riconosciuta dallo Stato italiano con la Legge 482/99 minoranza linguistica storica perché parla ancora la “lingua di Omero”, il Greco di Calabria. Un borgo che conosce la bellezza greca, la restanza, l’accoglienza e cerca disperatamente di contrastare lo spopolamento, valorizzando il proprio patrimonio demo-etno-antropologico, sperimentando sincretismi culturali unici e preziosi e cercando di utilizzare al meglio i finanziamenti europei e statali. Qui, dove è nata l’Italia, sono passati i Greci, i Romani, i Normanni i Bizantini, gli Aragonesi, i Borboni, sono state professate l’Ortodossia, il Cristianesimo, il Giudaismo…che hanno reso questo luogo crocevia di popoli e religioni, terreno fertile per perseguire la bellezza e dare contenuti alla parola.
Non c’è accoglienza se non c’è restanza. Alcuni territori sanno accogliere perché la loro gente è stata un tempo accolta, e la Calabria nei secoli ha fatto sua questa dimensione umana, che nella quotidianità si esprime in gesti semplici che permettono al visitatore di percepire il “calore umano”. Qui l’incontro viene spesso consacrato con la condivisione del cibo, del vino e del racconto, e questo è possibile perché qualcuno – nonostante tutto – ha deciso di rimanere.
L’accoglienza e la restanza sono tra loro strettamente connesse. Chi resta ha il coraggio di continuare a vivere nella propria terra, di dare un nuovo senso e una nuova vita a quello che lo circonda e così contrasta lo spopolamento. Restando accoglie, si prende cura dei luoghi preservandone la bellezza originaria, li fa parlare donando loro una nuova vita. Risponde alle esigenze di un moderno turista “esperienziale”, alla ricerca di emozioni autentiche e di posti intatti, dove la sensazione è che il tempo si sia fermato, e dove le persone raccontano la loro storia e quella del territorio in cui vivono, e sanno accogliere e far emozionare. Colui che resta lo fa in un periodo storico in cui il viaggio, il tempo, l’accoglienza assumono una dimensione diversa dal passato, dove non ci si sposta quasi più per necessità o per status sociale ma per interesse, dove ai lunghi soggiorni sono preferiti i Long WE, e agli Hotel e ai Villaggi vacanze sono preferiti Agriturismi, B&B, Alberghi diffusi. Dove la meta del viaggio, oggetto di una attenta ricerca prima della partenza, viene analizzata e scoperta attraverso i Social Network e in base alle recensioni e ai racconti di chi in quel luogo c’è stato, viene scelta.
E quando colui che resta capisce quanto sia bello accogliere, allora si trasforma in “Abitante culturale”. Il custode di un territorio, esempio di come è possibile continuare a vivere nella propria terra e nello stesso tempo, ascoltare ma anche raccontarsi e raccontare una storia senza tempo. Un ruolo che chi ci vive matura a poco a poco, si attribuisce da solo o per il riconoscimento di chi lo incontra. Una sorta di “ruolo sociale” che è testimonianza del senso di appartenenza, che induce a rimanere, a migliorare, a tenere pulito, a rendere le bellezze riconoscibili e fruibili.
E così Bova, un borgo di quattrocento anime, in un’area sperduta del Sud Italia, che cerca di contrastare lo spopolamento, sta diventando a poco a poco una “destinazione turistica esperienziale” per la bellezza greca che conserva e che mantiene viva attraverso la parola dei propri “Abitanti culturali”. Persone che hanno imparato a “vedere” con “occhi nuovi” e comprendere l’eccezionalità del preesistente, prima considerato scontato e banale. Giovani che rimangono se viene intrapreso, unitamente all’attivazione e miglioramento dei servizi essenziali, un minuzioso lavoro di Empowerment di Comunità, cucito su chi ci vive, condiviso e alimentato giorno per giorno e volto a ricostruire un capitale umano spesso rarefatto, ma fondamentale e imprescindibile per ricominciare.
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