Recentemente Laura Dalla Vecchia, presidente degli industriali di Vicenza, alla domanda su che cosa pensasse della riforma dell’autonomia differenziata, rispondeva: “Noi di Vicenza prendiamo un aereo ogni 15 giorni, l’aeroporto di Venezia è uno dei più grandi d’Italia. Noi guardiamo al mondo”.
Risposta senza giri di parole, in quella che è considerata la regione più “autonomista” d’Italia, che indica la distanza fra la stanca e ripetitiva narrazione di una politica veneta abbarbicata a parole antiche, e il mondo dell’economica ogni giorno costretto a confrontarsi con i cambiamenti e le sfide globali.
In quelle parole si coglie il paradosso che sintetizza la crescente dicotomia fra realtà economiche dinamiche e le fumosità verbali di una politica ancora immersa nelle suggestioni dei primi anni ’90 del Novecento, con l’autonomia differenziata trasformata in una bandiera simbolica sempre più lontana dalle grandi questioni contemporanee a cui dovrebbe offrire risposte.
A risentirne è inevitabilmente il dibattito pubblico, ridotto a scontro fra tifoserie e lo stesso dibattito parlamentare sempre più prigioniero di istanze identitarie, scambiabili sul mercato dei simboli (premierato/autonomia), prive di legami con le necessità della realtà italiana contemporanea e i suoi problemi.
Se negli anni ’90 la caduta del muro di Berlino aveva fatto profetizzare a Francis Fukujama la “fine della storia” e il tramonto degli stati nazionali; se la globalizzazione dei mercati aveva portato il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, ad affermare che la libertà economica avrebbe esportato assieme ai “valori della libertà economica anche la democrazia”, i fatti degli ultimi anni si sono incaricati di smentire quelle suggestive previsioni, facendoci ripiombare, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, in un mondo in cui la guerra, che credevamo bandita dalla storia, è tornata a minacciare la stabilità e la sicurezza mondiale. Il diritto internazionale ha mostrato tutta la sua fragilità di fronte alle neo spinte imperiali.
Il reshoring delle imprese è l’altro lato della medaglia di un mondo in cui il conflitto, non solo bellico ma anche commerciale e la pandemia ha obbligato a cambiare prospettiva.
La crisi degli stati nazionali portava allora a profetizzare la nascita di un’Europa delle Regioni, prospettiva rivelatasi una autentica illusione ottica. Gli stati nazionali hanno riconquistato negli ultimi anni spazi che sembravano allora messi in discussione, segnalando semmai essi stessi i limiti dell’essere troppo piccoli per le grandi sfide, poste non solo dalle nuove grandi potenze emergenti ma anche da nuovi poteri (la finanza e le big tech) che sfuggono sempre più alla regolazione. La domanda di maggiore integrazione europea in materia di difesa e di fiscalità comuni, nonostante l’affermarsi di spinte populiste e sovraniste, mostrano la nuova natura delle sfide cooperative a cui sono chiamati gli Stati nazionali.
La spinta autonomistica cresciuta in quel contesto politico e culturale della fine secolo scorso, in cui la fine della guerra fredda lasciava immaginare un mondo pacificato e l’avvio di nuove relazioni economiche e sociali, è il terreno in cui matura la riforma del titolo V della Costituzione. Il nuovo orizzonte porta a immaginare un radicale dimagrimento delle competenze in capo allo Stato a favore di una maggiore autonomia delle regioni assieme alla possibilità di una differenziazione di competenze anche per le regioni a statuto ordinario. Sullo sfondo vi è l’emergere di una questione fiscale delle aree più ricche del Paese, con al centro l’obiettivo di trattenere il gettito fiscale generato dal territorio. Quel dibattito rifletteva le condizioni del suo tempo, con la Lega di Bossi agitante la secessione della cosiddetta Padania, un mondo in cui la rivoluzione di internet e quella digitale non erano ancora all’orizzonte. La carta era ancora la forma di comunicazione standard, quella verbale si affidava ai telefoni fissi e alle cabine telefoniche. L’avvento di internet e degli smartphone ha cambiato il nostro modo di relazionarci con il mondo, rendendoci permanentemente interconnessi. Il mondo digitale ha creato nuovi servizi prima impensabili, disintermediando funzioni in precedenza affidate a poteri burocratici amministrativi e facilitando l’accesso a molteplici servizi. Ha creato, allo stesso tempo, nuovi poteri verticali in capo ad aziende private dai bilanci immensi, simili, se non addirittura superiori a quelli degli Stati, poteri che sfuggono alla regolazione delle leggi nazionali e, per certi aspetti, anche a quella dell’Unione. La stagione digitale e l’esplosione di una vera e propria economia digitale sono state un frutto allora non previsto e dirompente e l’intelligenza artificiale lascia immaginare un nuovo salto di paradigma. Si tratta di cambiamenti profondi che non hanno inciso solo nella vita delle persone e sull’economia, ma anche sul rapporto fra istituzioni e cittadini e nelle politiche pubbliche. Il mondo non è mai stato così complesso e caotico e le vecchie ricette non permettono di intercettare le nuove sfide. La stessa modalità di formazione del consenso ha cambiato segno, mostrando, assieme alle nuove opportunità, anche i limiti generati dalla manipolabilità delle informazioni. E’ la stessa idea di democrazia e di libertà che rischia di essere messa in discussione se non si traguarda ai nuovi orizzonti, che la tecnologia da una parte e il cambiamento dei rapporti geopolitici dall’altra, pongono davanti a noi.
Di fronte a scenari completamente cambiati, continuare a ragionare come nella stagione analogica rischia di produrre danni rilevantissimi. La difesa identitaria, talvolta di comunità immaginarie, rischia di essere un surrogato fragilissimo, quando non addirittura tossico.
In questo senso la discussione sull’autonomia differenziata mostra tutti i limiti di una politica incapace di andare oltre il Novecento, quando si immaginava che ogni regione potesse, fra l’altro, avere una propria competenza in materia di rapporti internazionali e con l’Unione europea, o commerciali con l’estero. A 24 anni di distanza è generale la consapevolezza di quanto possano essere dannose, non solo per lo Stato ma anche per le stesse regioni simili previsioni, che differenziate in ognuna delle 15 regioni a statuto ordinario finirebbero per generare un paese arlecchino. Prova ne sia l’introduzione dell’emendamento alla riforma Calderoli che attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri la facoltà di “limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie o ambiti di materie individuati dalla Regione nell’atto di iniziativa”, previsione che meglio di mille ragionamenti spiega la consapevolezza della rilevanza del problema e allo stesso l’impossibilità politica, interna alla maggioranza, di percorrere la strada maestra, quella di una riforma costituzionale, per sottrarre alla discrezionalità dei governi pro tempore e ai loro precari equilibri stabilire quali competenze concedere alle regioni richiedenti.
Non a caso, nonostante questa facoltà attribuita alla Presidenza del Consiglio dei ministri, il mantra delle 23 materie continua ad essere agitato dalla Regione Veneto, una retorica ripetuta all’infinito, assieme alla trattenuta del cosiddetto residuo fiscale, che ha finito irrigidire e impedito di introdurre quelle modifiche che un po’ tutti ritengono necessarie, senza contare che nella formulazione letterale degli articoli 116 e 117, non si parla mai di materie bensì di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie”, e dunque a funzioni di dettaglio fra le cinquecento individuate in capo alle materie individuate come competenze concorrenti.
La riscrittura degli articoli 116 e 117 della Costituzione, articoli che letti congiuntamente consentono alle regioni di attingere a un catalogo amplissimo di competenze, rimane comunque come condizione necessaria per garantire un ordinato funzionamento della Repubblica. Pensare che ogni regione, anche con poco più di qualche centinaio di migliaia di abitanti possa diventare titolare di funzioni quali il commercio con l’estero – quando l’evidenza ci dice che gli stessi paesi dell’Unione, qualora divisi, rischiano di essere schiacciati e ininfluenti rispetto ai colossi mondiali – appare puro velleitarismo; oppure che ogni regione gestisca in proprio la “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, in un mondo il cui il ricatto energetico ha mostrato la debolezza dell’intera Unione, appaiono suggestioni romantiche di un mondo che non esiste. Se questa previsione fosse stata già operativa nella vicenda del gasdotto Tap in Puglia, con l’opposizione della regione, l’approvvigionamento energetico nel 2022 sarebbe stato per l’Italia probabilmente un problema drammatico. Potremmo continuare pensando ai “porti e agli aeroporti”, nodi di accesso alla rete globale evocata dalla presidente di Confindustria Vicenza, e agli effetti che potrebbero prodursi se ogni regione gestisse questi asset strategici senza una visione d’insieme. Lo stesso potremmo dire per le “grandi reti di trasporto e di navigazione” che richiedono orizzonti strategici non confinabili né riducibili a logiche da “maso chiuso”. Così come pensare che “la ricerca scientifica e tecnologica”, o addirittura l’istruzione (pilastro fondante l’unità nazionale), già inadeguate quanto a risorse investite, possano produrre effetti positivi, sia per le regioni che ne facessero richiesta, sia per l’intero sistema Paese, appare un’illusione. Anzi, è più probabile che questo produca arretramenti nel già precario stato in cui ci troviamo rispetto agli altri paesi europei.
Il continuo richiamo alla pretesa delle cosiddette 23 materie, senza se e senza ma, come sostiene Zaia, e alla trattenuta del residuo fiscale, come se la fiscalità fosse in capo ai territori e non invece alle persone fisiche e giuridiche, mostra sempre più l’estraneità ai processi e alle dinamiche in corso e la stanca riproposizione di suggestioni dell’altro secolo da cui non si riesce ad uscire.
La stessa suddivisione delle competenze – tagliate con l’accetta dal racconto politico – in una realtà in cui la rete ha mandato in soffitta antiche rigidità dei poteri, mostra tutta la difficoltà delle classi politiche di rinnovare il proprio pensiero adeguandone gli obiettivi alle nuove sfide che richiedono alle istituzioni un di più di cooperazione e di collaborazione leale.
Se questi aspetti evidenziano i limiti di una impostazione generale figlia del passato, il testo approvato alla Camera dei Deputati evidenzia una serie di nodi problematici che riguardano – insieme alla marginalità del ruolo del Parlamento, alla difficile revocabilità delle intese, alla mancanza di indirizzi circa il trasferimento delle materie non-Lep, – il finanziamento delle funzioni pubbliche potenzialmente devolvibili alle Regioni.
Fra queste vanno segnalate le modalità di finanziamento delle cosiddette funzioni Lep, cioè quelle riguardanti i Livelli essenziali delle prestazioni, su cui la normativa vigente prevede standard di prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (dall’istruzione alle grandi reti di trasporto). Sarebbe stato necessario correggere radicalmente l’approccio che affida a ogni singola “intesa” i criteri di determinazione delle risorse finanziarie e a Commissioni paritetiche Stato-singola Regione l’attuazione operativa di tali criteri. Il pericolo che si profila è quello di un possibile assetto di tipo “balcanico”, con riflessi non controllabili sulla tenuta dei conti pubblici.
L’attuazione del complesso meccanismo di finanziamento delle funzioni Lep – in cui dovranno essere determinati i fabbisogni standard su funzioni potenzialmente diversificate tra le varie Regioni richiedenti – richiede invece un forte coordinamento, da affidare a un unico organismo nazionale, in cui partecipino lo Stato e tutte le Regioni a statuto ordinario. Si eviterebbero sfasamenti nei metodi di calcolo e di monitoraggio, anche tenendo conto che fabbisogni standard e monitoraggio dei Lep si applicheranno a tutti i territori, compresi quelli in cui queste funzioni resteranno pienamente nella competenza dello Stato.
Lo stesso finanziamento delle cosiddette funzioni non-Lep, che comprendono anche ambiti rilevanti in termini di risorse finanziarie coinvolte, evidenzia criticità significative. Il testo prevede che le risorse corrispondenti siano determinate sulla base della spesa attuale erogata dallo Stato nel territorio della singola Regione richiedente, ovvero quella spesa storica considerata fonte di iniquità dalla stessa regione Veneto. Nulla dice invece quanto alla necessaria determinazione dei relativi fabbisogni standard e alle modalità di revisione di tali risorse nel tempo evitando che si generino degli extragettiti dai divari tra la dinamica delle compartecipazioni attribuite e le necessità di finanziamento.
Questioni rilevanti, che il patto di maggioranza, premierato a te, autonomia a me, ha reso impossibile affrontare nel merito.
E’ difficile pensare di far funzionare l’autonomia differenziata per alcune specifiche Regioni se prima, o quantomeno parallelamente, non viene data attuazione al meccanismo di finanziamento e perequazione delle funzioni già oggi attribuite a tutte le Regioni (federalismo simmetrico). Quel meccanismo, fatto di tributi regionali propri, compartecipazioni e fondo perequativo, è ancora lettera morta dalla legge sul federalismo fiscale del 2009.
L’autonomia differenziata, a dispetto di ciò che il titolo lascia intendere, con l’affidamento del finanziamento delle funzioni aggiuntive a compartecipazioni su gettiti di tributi statali riferibili a questi territori, con aliquote riviste nel tempo per garantire l’allineamento tra gettiti e fabbisogni standard, di fatto continua nel solco dei “trasferimenti mascherati”. Trasferimenti su cui le Regioni non hanno alcuna possibilità di manovra e quindi, a dispetto della vulgata, alcuna responsabilizzazione di fronte ai propri cittadini-contribuenti.
Una riforma destinata dunque ad aumentare la confusione nei rapporti fra lo Stato e le Regioni e ad aumentare i conflitti fra forze politiche e territori. Esattamente ciò di cui non vi sarebbe bisogno in un Paese con un elevatissimo debito pubblico.
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