30 Gennaio, 2025

Rendita e finanziarizzazione: un campo d’azione per l’urbanistica

Tempo di lettura: 7 minuti

“La ristrutturazione e la globalizzazione delle economie e soprattutto i concomitanti cambiamenti nel sistema finanziario hanno avuto effetti enormi sui mercati immobiliari. Nella discussione recente questi effetti sono rimasti finora quasi completamente trascurati. Questo è un peccato, perché si può sostenere che sono proprio i mercati immobiliari a trasmettere gli effetti del cambiamento economico generale sullo spazio. D’altra parte, nella discussione sulla teoria della rendita, le conseguenze spaziali della trasformazione economica sono state ignorate. Anche in questo caso, questa situazione è da deplorare, poiché la teoria della rendita può essere utilizzata per spiegare l’assegnazione dell’uso del suolo determinata dal funzionamento dei mercati immobiliari”

Così Anne Haila nel 1988 (p. 79, TdA), molto prima che la più recente crisi finanziaria portasse all’attenzione il legame, non proprio inedito, tra economie “di carta” e “del mattone”. In queste poche righe si trova la spiegazione dell’intreccio tra rendita e finanziarizzazione, e tra queste e l’urbanistica – la cui “disattenzione” per questioni che hanno “effetti enormi” sui mercati immobiliari e quindi sulle scelte d’uso del suolo e la configurazione dello spazio urbano è da “deplorare”. Dunque, certamente l’interesse per questi temi non è uno di quegli “sconfinamenti” in campi che non sono nostri propri, che si teme vadano a detrimento del così detto “specifico disciplinare”. Tutt’altro. 

Solo a determinate condizioni rendita e finanziarizzazione possono stare insieme e lavorare “sinergicamente” – come effettivamente fanno, sebbene volentieri si ignorino gli esiti peraltro controversi della loro azione congiunta: tale interazione avviene all’interno di un tipo specifico di capitalismo o, meglio, di una fase precisa della sua “trasformazione”, quella del “capitalismo dei rentier” (Christophers 2020). 

I due fenomeni si intrecciano perché hanno alcuni caratteri in comune, e questi diventano progressivamente più importanti delle differenze. Tra le principali differenze ci sono il tipo di risorse impiegate e il tipo di relazioni sociali alla base dei due processi. Mentre nella finanziarizzazione la risorsa fondamentale è il denaro (“equivalente universale”), che viene mobilitato come capitale fruttifero dentro relazioni creditore-debitore che prevedono il pagamento di interessi, per l’economia della rendita è la proprietà e il controllo (possibilmente oligo- o mono-polistico) di risorse essenziali scarse diverse dal denaro: da cui l’appropriazione di parte di quanto prodotto all’interno di relazioni proprietario-affittuario tramite il pagamento in forma di rendita. 

Tra le affinità si rileva che entrambe dipendono da una cattura di plusvalore che è prodotto “altrove” (in altri settori dell’economia, a livelli diversi della produzione) e, aggiungerei, da “qualcun altro” (Pizzo 2023), ed entrambe mostrano meccanismi di produzione e comportamenti sempre più simili, tra cui capacità di attesa, orientamento alla speculazione, potere crescente o predominio del ruolo dell’intermediazione. 

La finanziarizzazione potrebbe apparire più “lontana” della rendita dall’urbanistica, ma diviene la “parola-chiave” degli anni 2010 (Christophers 2015) e, travolti dalle discussioni sui REITs (Real Estate Investments Trusts), sollecita ad affrontare le ricadute spaziali degli investimenti finanziari. 

Nel real estate finanziarizzato l’attenzione si sposta dai bisogni reali alle migliori opportunità di profitto: due prospettive di solito inconciliabili. 

Di rendita, l’urbanistica ha smesso per troppo tempo di occuparsi. Quando la si considera, è per ricondurla a “termine noto” – come tipicamente nelle valutazioni economiche dei progetti. Quasi mai per metterla in discussione, interrogandola sulle sue provenienze (da dove e da cosa deriva) e sulle sue conseguenze (che impatti ha sulle città e su chi le abita). 

Si continua a sottovalutare il fatto che tra le “risorse scarse” che divengono progressivamente oggetto di appropriazione e concentrate per garantire sempre maggiori rendite troviamo lo spazio urbano e il patrimonio costruito; e che (come  evidenzia il Mc Kinsey Global Institute) quasi il 70% della ricchezza derivante da investimenti è collocata nel real estate, sempre più considerato come puro “asset”: acquisendo percentuali anche “irrisorie” di asset gestiti da banche, assicurazioni, fondi pensionistici (oppure porzioni di intraprese più o meno “familiari” orientate però allo stesso scopo), si investe nell’immobiliare per assicurarsi una rendita. La diffusione di questa “logica” è uno dei caratteri peculiari del capitalismo del XXI secolo. 

McKinsey Global Institute – The rise and rise of the global balance sheet. How productively are we using our wealth  

Suolo e patrimonio costruito sono essenziali tanto per l’economia della rendita quanto per quella finanziaria: è su questo che esse inevitabilmente si incontrano e si intrecciano nelle loro pur distinte traiettorie, facendo emergere e moltiplicando conflitti con altri, opposti e inconciliabili modi di pensare luoghi e territori – che però raramente vengono coltivati con convinzione, come se non si potesse far nulla, come se non ci fossero alternative.  

Così, “Nel 2008 una crisi finanziaria globale ha scioccato il mondo” … ma  questo non sembra aver avuto effetti sugli urbanisti. È l’incipit di un articolo di Klaus Kunzmann del 2016, dove si sostiene che per la maggior parte dei professionisti l’attività è proseguita (e prosegue) “as usual”.  Tra le spiegazioni, la constatazione della difficoltà di stimare l’impatto della crisi finanziaria globale sulla pianificazione urbana e regionale perché i nessi causali sono deboli, sebbene gli effetti della crisi siano stati avvertiti ovunque. E l’idea che non sia stata tanto la crisi ad aver impattato sulla pratica della pianificazione, ma piuttosto i suoi effetti (essenzialmente, una riduzione nella disponibilità di risorse finanziarie), cosa che ha finito per rafforzare il neoliberismo e l’austerity urbanism (Peck, 2015). Così, chi si occupa di urbanistica professionalmente continua a dedicarsi a “costruire infrastrutture ad alta tecnologia, promuovere lo sviluppo economico locale, abbellire la città, ospitare eventi, sostenere festival, costruire musei di prestigio, o semplicemente controllare l’altezza di un progetto edilizio” –  ossia agli ambiti nei quali riesce a ritagliarsi qualche ruolo; mentre gli accademici preferiscono essere “più descrittivi che orientati all’analisi critica”. Il potere dell’urbanista in un sistema dominato dal mercato è limitato: non può intervenire direttamente per ridurre le disuguaglianze sociali e spaziali, ma può evidenziare i problemi e stimolare il dibattito pubblico intorno agli obiettivi collettivi fondamentali dell’azione urbanistica. 

Pur condividendo gran parte dell’argomentazione di Kunzmann, vorrei spingerla in una direzione un poco diversa, tornando all’intreccio tra rendita e finanziarizzazione: ricordando, per prima cosa, che l’urbanistica ha e può avere un ruolo essenziale nella definizione delle condizioni di produzione e riproduzione della rendita, e sottolineando come dalla metà degli anni 2010 si torni (per quanto ancora in misura limitata) a discutere di rendita in relazione alla finanziarizzazione, e si parli (moltissimo) di finanziarizzazione in relazione alla crisi, ma poi “(sorprendentemente?) non si chiude il cerchio, quasi mai si mettono in relazione diretta crisi e rendita” (Pizzo 2023). 

È possibile, e che senso ha, parlare di crisi finanziaria e urbanistica senza toccare il tema della rendita? Forse è possibile, e del resto i fatti stanno lì a dimostrarlo. Resta tuttavia da trovarvi un senso. Escludere la rendita dalla nostra riflessione, sia teorica che orientata alla pratica, o sottovalutarla, ponendola in una posizione subordinata rispetto ad altre questioni meno tecniche ma più “attraenti” significa evitare di considerare uno dei pochi, essenziali, elementi su cui l’urbanistica può agire per tentare di dare un diverso indirizzo alle scelte su città e territori in un momento in cui le ragioni economiche sono tanto imperanti, e la loro spinta propulsiva tanto preponderante da far apparire impraticabile, quando non privo di interesse, ogni scenario di sviluppo alternativo a quello offerto con tanta semplicità dal maggior e più immediato profitto. Se (ri)provassimo ad occuparcene seriamente, potremmo forse contribuire a recuperare qualche fiducia in un futuro che non sia un percorso già tracciato, e che sia ancora possibile esercitare sguardi lungimiranti – il cui venir meno non è altro che la negazione del planning.

Ulteriori approfondimenti

  • Christophers, B. (2024). Our lives in their portfolios: Why asset managers own the world. London: Verso.
  • Haila, A. (1988) Land as a Financial Asset: The Theory of Urban Rent as a Mirror of Economic Transformation, «Antipode», 20(2), 79-101. 
  • Kunzmann, Klaus R.  (2016) Crisis and urban planning? A commentary, European Planning Studies, 24:7, 1313-1318, DOI: 10.1080/09654313.2016.1168787
  • Peck, J. (2012). Austerity urbanism: American cities under extreme economy. City16(6), 626-655.
  • Pizzo, B. (2023). Vivere o morire di rendita. La rendita urbana nel XXI secolo. Roma: Donzelli

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