22 Febbraio, 2025

Perché è opportuno che la manifattura in città torni di moda

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C’era una volta un movimento globale, fatto di dibattito e buone pratiche, di amministratori pubblici lungimiranti e di cittadini operosi, che propugnava il ritorno della manifattura (digitalizzata, ripulita delle scorie novecentesche e riorganizzata anche con attenzione all’economia dell’esperienza) come elemento fondamentale di ogni efficace rigenerazione urbana. C’era, appunto, una volta.

Le ragioni per le quali il tema della manifattura in città ha quantomeno perso di forza e di centralità nel dibattito pubblico sono molteplici. Dal nostro osservatorio, se ne possono certamente numerare senza sforzo quattro.

La prima è la crisi della manifattura stessa, che è crisi sistemica e quantomeno europea, con elementi caratteristici e recrudescenze tutte italiane: non sapendo cosa sarà dell’apparato produttivo della seconda manifattura d’Europa, è ben arduo immaginarne un’estensione al di fuori dei confini, anzi delle ridotte, attuali, che sono quelle della provincia diffusa. Si cerca di salvare il salvabile, archiviando molte delle aspettative che la digitalizzazione aveva sollevato circa un nuovo secolo manifatturiero in Occidente, caratterizzato da microproduzioni fortemente integrate e distribuite, compatibili anche con i contesti urbani.

La seconda riguarda la crisi delle città come modello accogliente e generativo: di nuovo, è già molto complesso mantenere nelle nostre città funzioni basiche di accoglienza di nuovi abitanti e preservare una mixité sociale funzionale nel quadro conosciuto della città terziaria, non c’è proprio posto per immaginare funzioni nuove, che richiamino persone a cui oggi non è dato di poter fornire nemmeno un posto letto a prezzi ragionevoli. La smaterializzazione digitale del valore e la crisi del modello produttivo italiano (europeo?) hanno favorito il salto dall’economia terziaria non già verso una nuova manifattura, ma verso la rendita, che disegna muri invisibili e invalicabili attorno ai perimetri delle città con un valore di mercato.

La terza motivazione è certamente più milanese, e pertiene all’affievolimento di una vis riformista che vedeva in un governo attento, partecipato e proattivo dei processi urbani, l’antidoto all’erompere di diseguaglianze e paradossi connessi all’azione casuale della mano invisibile del mercato. Oggi, Milano stessa si pensa sempre meno come un’eccezione, in grado di produrre una sintesi altissima tra sviluppo e giustizia sociale, e sempre più come una comunità che accompagna, con meneghina efficienza, le esigenze del mercato, sperando di incontrarne di volta in volta i volti più sorridenti e meno feroci, quando il mercato “impazzisce”, come oggi con i valori immobiliari.

L’ultima ragione riguarda la perdita generalizzata di fascino della manifattura, anche nella sua componente digitale. L’utopia, oggi assai appassita, dei maker immaginava che, attorno alla riorganizzazione digitale della produzione, si potesse reimmaginare addirittura un modello economico e sociale, fondato sull’autonomia estrema di soggetti che passavano da consumatori a produttori, o coproduttori. Oggi, il modello prevalente, sulle ali di tecnologie non certo open e distribuite come la stampa 3D, ma chiuse ed esponenziali come l’IA, è al contrario quello delle immense concentrazioni di capitali, potenza di calcolo, spazi. Se l’emblema dell’era della manifattura in città era un fablab, in cui tecnologi e artigiani condividevano spazio e idee, l’emblema produttivo dei nostri tempi è la gigafactory di Tesla, o se preferite le server farm dell’IA, prudentemente collocate ben lontano dai centri urbani e dalla vita che vi gravita e soprattutto alieni da ogni processo partecipato, collaborativo, di produzione di valore dal basso.

Non sembra dunque esserci più spazio per un’utopia, che continua però a mantenere inalterate molte delle proprie ragioni, che anzi oggi escono rafforzate nella loro componente valoriale e “politica”, proprio dalla virulenza con cui il mondo sta andando da un’altra parte.

Architrave della visione che premeva per riportare la manifattura in città era l’idea che il fare, il produrre a misura di braccio e sulla base delle proprie competenze e aspirazioni, fosse la principale garanzia per la permanenza di un tessuto di classe media, e per un ascensore sociale che trasportasse coloro i quali a questa classe media aspiravano, al riparo dalle scosse telluriche di modelli di sviluppo troppo dipendenti dalle concentrazioni volubili di capitali o, peggio, dalla lotteria della rendita. Ora, è fuor di dubbio che la scelta di privilegiare modelli di creazione del valore più legati all’accompagnamento carezzevole del mercato e alla massimizzazione della rendita, come il turismo di massa, in luogo di investimenti sulla produzione innovativa e sostenibile di beni abbia contribuito molto efficacemente a sigillare socialmente le aree metropolitane. Una tenuta sin troppo stagna del tessuto sociale sta addirittura generando il paradosso, progressivamente diffuso in tutto l’Occidente, di tenere fuori, o ai margini, delle città non solo coloro che assicurano il fisiologico ricambio d’aria (i creativi e i talenti), ma addirittura chi si accosta alle città stesse per contribuire con il proprio lavoro al loro funzionamento. Solo che così, pur onuste di record di valore immobiliare, le città, corpi vivi, cominciano a deperire.

Quindi, garantire che attorno al palazzo rigenerato, e al nuovo sofisticato specialty coffee, rimanga una bottega, un’officina, un servizio di vicinato o, perché no, addirittura una piccola, linda e innovativa, fabbrica, acquisisce oggi il valore ancora più forte di antidoto al declino, anche per chi oggi non ha gli strumenti, né l’interesse, a comprenderlo.

Lo ha compreso a Milano RealStep, uno sviluppatore immobiliare, che nella zona di viale Certosa sta dando vita al Milano Certosa District, un ambizioso piano di rigenerazione urbana, che ospiterà al proprio interno un hub da 1000 mq dedicato alla manifattura artigiana. La struttura ospiterà botteghe, di mestieri tradizionali e di nuovo artigianato, pensate come spazi aperti, non solo ai visitatori, ma anche alla collaborazione tra produttori e con l’ecosistema milanese dell’innovazione. Un luogo dove produrre davvero, ma anche dove sperimentare innovazione, sfruttando finalmente lo straordinario potenziale di Milano come naturale acceleratore d’impresa, potendo contare su canoni di affitto calmierati per i primi 18 mesi.

In quest’ottica, APA Confartigianato Milano, Monza e Brianza partecipa attivamente al progetto sin dalla sua nascita, ha contribuito alla selezione delle imprese ospitate, e aprirà all’interno dell’hub una propria sede, unica nel suo genere, dedicata alla formazione e alla valorizzazione delle imprese artigiane. Queste potranno contare su uno spazio per affacciarsi in modo sostenibile al mercato milanese, incontrare clienti, fornitori, partner o semplicemente raccogliere spunti e buone idee.

Non una rivoluzione, ma certamente un contributo concreto a riportare un tema centrale per un’idea ordinata e lungimirante di sviluppo economico e sociale (che nel Secolo delle città non può che partire dallo sviluppo urbano), oggi perso di vista come priorità.

Soprattutto, un contributo che non viene dalla galassia dell’economia sociale, ma dal mercato stesso, a partire da uno sviluppatore immobiliare che ha compreso l’importanza di investire nelle dinamiche fisiologiche di un quartiere, tra le quali la produzione, è centrale e fa la differenza tra l’ennesimo sviluppo e la vera rigenerazione urbana, e dagli artigiani che hanno accettato la sfida.

Popolare, o ripopolare, un quartiere di botteghe e officine non è solo una scelta estetica, etica o di omaggio al passato, è un buon investimento, che si ripagherà generosamente in termini di valore e attrattività della zona, distinta dai non luoghi stereotipati delle catene e dei centri commerciali. Riparlare di manifattura in città, e operare per riportarla, non è dunque solo buon governo, è anche buon business.

Questo contributo non può però fare a meno, per non essere vano, di una ripresa di tensione in termini di dibattito pubblico e di politiche per rilanciare davvero il ruolo delle città oltre l’inerzia presente. Le città, o almeno quella parte amministrata secondo principii non proni al laissez faire, devono tornare con coraggio a porsi questioni ambiziose relative al loro futuro, che è anche necessariamente un futuro di sviluppo economico e di generazione di vita di qualità per i loro abitanti, al di là della gestione dei lucchetti dei b&b e dei limiti di velocità.

In un’epoca avveniente di disordine e incertezze, domestiche e globali, serve per forza qualcosa di più.


Tajani, C. (2022). I vantaggi economici e sociali del reinsediamento manifatturiero nelle aree urbane. Dite.it. 

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