In varie culture e in diversi periodi storici, le donne sono state identificate con gli spazi privati. Case, atri e cortili sono stati definiti e disegnati come spazi delle donne, mentre gli spazi pubblici e specialmente i centri cittadini erano destinati ad essere utilizzati principalmente dagli uomini. Fonte importante di questa segregazione è la tradizionale divisione del lavoro: agli uomini, ai capifamiglia, vita pubblica e politica, alle donne privato e cura domestica.
I processi che rivendicano l’uso degli spazi pubblici da parte delle donne sono stati esaminati a partire dagli anni ’70. Simone de Beauvoir, scrittrice, filosofa e femminista francese, a partire dalle sue prime opere dichiara che le donne sono state il “secondo sesso” nelle strutture sociali per quasi tutta la storia, e quindi il loro accesso alla sfera pubblica è stato spesso ostacolato. Le donne, ci dice Beauvoir, non condividono le stesse libertà mentali, spaziali ed economiche concesse agli uomini nella società e – anche se nel tempo, hanno iniziato a godere di una crescente libertà – non possono sfuggire ai loro ruoli tradizionali di madri e mogli, e quindi il loro uso degli spazi pubblici resta per lo più limitato alle aree adiacenti alle loro abitazioni. È con questa divisione dei ruoli che si definisce la dicotomia pubblico-privato, che si identifica spazialmente nella dicotomia casa-città.
L’urbanistica con prospettiva di genere mira ad analizzare il tessuto urbano in un’ottica trasformativa, affinché le differenze di genere non implichino disuguaglianza nel diritto a vivere la città. Zaida Muxí Martínez, architetta e urbanista argentina specialista in questioni di spazio e genere, nel suo libro “Mujeres, casas y ciudades. Más allá del umbral” (2019) recupera l’operato di architette e urbaniste silenziato nella storia generale. Il suo lavoro mette in luce le loro strategie d’azione, che sono innovative in quanto frutto di idee nate da punti di vista diversi da quello standardizzato, con l’obiettivo di superare la dicotomia pubblico-privato.
La critica è rivolta al modello di città contemporanea erede della città moderna, che ha organizzato il tessuto urbano a partire da quattro categorie di uso del tempo: abitare, circolare, lavorare e procreare. Queste categorie si sono tradotte in un tessuto urbano organizzato a compartimenti stagni per funzioni (dove si produce, dove si consuma, dove si dorme) e per genere (dove si lavora e dove si accudisce la famiglia).
Il modello di città alternativa che l’autrice propone è quello della città complessa e “prossima”, utilizzando la vita quotidiana come strumento di pianificazione, aggiungendo al già sperimentato modello di “città dei 15 minuti” il filtro della prospettiva di genere.
Col·lectiu Punt 6, cooperativa di architette, sociologhe e urbaniste con sede a Barcellona, nella pubblicazione “Urbanismo feminista. Por una transformación radical de los espacios de vida” (2019) elabora dagli studi di genere i criteri e le linee guida per rigenerare lo spazio urbano includendo quell’ottica.
L’urbanistica con prospettiva di genere, secondo le autrici, attribuisce lo stesso valore alle quattro sfere della vita quotidiana (produttiva, riproduttiva, personale e comunitaria) e in particolare rende visibili i compiti riproduttivi e di cura in gran parte non retribuiti e svolti da donne, affinché attraverso l’urbanistica si giunga ad una loro valorizzazione sociale e si ottenga che siano di corresponsabilità collettiva e sociale.
I criteri generali della prospettiva di genere nella pubblicazione vengono declinati attraverso le variabili urbane quali spazio domestico, mobilità, strutture, servizi e spazio pubblico, mettendo in luce in particolare i temi della cura, della sicurezza e dell’accessibilità. L’obiettivo verso cui tendono le azioni proposte è quello di generare una rete di supporto alla cura organizzata per spazi, tempi e connessioni e ridisegnare le città affinché siano fruibili in maniera sicura, autonoma e libera
Questi temi erano già stati anticipati da un’altra scrittrice che consideriamo essenziale: Jane Jacobs. Anche se lontana dal definirsi femminista, Jacobs ha posto le basi per la pianificazione di genere ed inclusiva. Nonostante sia uno scritto del 1961, “Vita e morte delle grandi città, saggio sulle metropoli americane” è ancora un libro con “qualcosa di nuovo”, la cui attualità risiede nella rilevanza che attribuisce alle relazioni informali rispetto ai meccanismi di strutturazione e funzionamento del sistema economico e sociale in contesti altamente organizzati, quali sono quelli delle grandi città.
Jacobs ci lascia l’importante messaggio che per fare di uno spazio pubblico, un luogo sicuro, è necessaria la presenza attiva delle persone. Il sistema di relazioni tra le persone utenti è ciò che fa la differenza tra uno spazio che funziona ed uno che viene abbandonato.
È importante intersecare il concetto di spazio pubblico con quello di comunità poiché così è possibile rendersi conto che gli spazi non sono solo vissuti e determinati da individui singoli, ma anche dalle relazioni che si innescano tra loro, dal senso di appartenenza a quel luogo, dalle diverse abitudini quotidiane.
Leslie Kern, attraverso la propria esperienza nelle diverse città in cui ha vissuto, ci racconta delle difficoltà associate alla vita di una donna nell’ambiente e non solo. Kern ci mostra anche come la sua sia una visione da una posizione privilegiata: quella di una donna bianca, eterosessuale, normodotata ed appartenente al ceto medio. Uno dei punti fondamentali di questo scritto, infatti, è la capacità di mostrare la complessità di un tema come quello della pianificazione di genere attraverso il concetto di intersezionalità. Un concetto che si prefigge di promuovere una visione più approfondita delle cose, capace di valutare e riconoscere le diverse forme di oppressione e le loro declinazioni che possono variare a seconda del contesto e della categoria, e le loro radici comuni.
In conclusione, per superare la dicotomia pubblico-privato, è necessario delineare strategie ed applicare criteri che trasformino lo spazio urbano, in maniera puntuale ma capillare, per favorire un uso della città che faciliti lo svolgimento della vita quotidiana di tutte le persone, seguendo il concetto di cura.
L’obiettivo è aprire il processo progettuale a tutte le categorie sociali, per ottenere spazi pubblici accessibili e fruibili secondo le necessità di tutte le persone, e in cui tutte possano sentirsi rappresentate e al sicuro.