La pianificazione urbanistica ovvero quella funzione attribuita ai comuni di determinare attraverso il piano – ordinata temporale e spaziale a fini di risultato – un assetto ordinato degli interessi sul territorio sta subendo profondi mutamenti. Sono modificazioni significative consolidatesi nel tempo a partire sia dalla legge 179/1992 – art. 16 – sui programmi integrati d’intervento, sia per effetto dei nuovi modelli regionali di piano, sia per l’ingresso delle premialità edificatorie favorite sia dal piano casa del 2009, sia dalla legge 106/2011 art. 5, norme che hanno prodotto numerose leggi regionali di rigenerazione urbana.
L’esito di queste innovazioni si riflette sui procedimenti di pianificazione che da atti generali assumono il carattere di piani settoriali in variante allo strumento urbanistico generale o in attuazione di prescrizioni generali dettate dal piano strutturale per gli ambiti di trasformazione.
La vicenda – prima di entrare nel merito dei problemi giuridici – affonda le sue radici nella fine dei piani di espansione degli anni ’60 a favore di un ripensamento della città consolidata da demolire e ricostruire, cambiandone la destinazione d’uso e aggiungendovi premialità a tutto campo. In breve, se come sosteneva un grande giurista del secolo scorso – Feliciano Benvenuti – l’urbanistica governa l’economia, l’assunto sembra oggi cedere il passo a favore delle logiche del mercato finanziario e immobiliare a scapito degli interessi generali della collettività rappresentata. D’altronde, la riconversione, riqualificazione, rigenerazione nelle zone urbanizzate della città offre incrementi di valore agli investimenti finanziari che spesso non hanno nulla a che fare col significato di quei termini. Siamo, in altre parole, nel pieno della vicenda della città capitalista evocata da David Harvey.
Fatte queste premesse, la vicenda urbanistica coinvolge necessariamente il ruolo della pubblica amministrazione – i comuni – che nel processo di formazione della volontà politica di determinazione dell’assetto dei suoli devono necessariamente ricorrere al consenso del privato attraverso la stipula di accordi procedimentali o sostitutivi di procedimento al fine di cristallizzare il contenuto delle prescrizioni sul territorio considerato.
In tal modo nell’esercizio del potere è inevitabile il ricorso agli accordi disciplinati dall’art. 11 della legge sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990, specialmente perché il consenso è legittimazione del potere.
La domanda che emerge è se questa amministrazione – nel processo di composizione degli interessi da determinare sul territorio da ripensare – sia in grado non solo di disciplinare il procedimento ma, soprattutto, di soddisfare l’interesse pubblico che costituisce il fine precipuo della azione amministrativa.
E proprio qui sta il punto centrale delle riflessioni, quello cioè di individuare le regole per “misurare” l’interesse pubblico in rapporto al processo di trasformazione/rigenerazione che si appalesa in caso di varianti urbanistiche o in caso di attuazione della mixité delle soluzioni urbanistico/edilizie offerte dalle previsioni del piano.
A guardar bene infatti le trasformazioni in corso in alcune città (Milano, Roma) in relazione all’edificabilità delle aree ferroviarie o anche guardando alle disposizioni attuative di alcuni piani strutturali, emerge con forza la marcata discrezionalità nel determinare le scelte di trasformazione che, in caso di variazione di piano non poggiano su nessun presupposto, ma anche nel caso dei piani operativi le soluzioni urbanistiche si prestano ad essere il risultato di una pura contrattazione sull’assetto futuro delle aree, essendo molto labili i parametri di riferimento (standard, destinazioni d’uso, premialità).
Dovendo quindi affrontare il tema delle “regole” il punto di riferimento normativo per le amministrazioni è costituito dall’analisi dell’art. 11 richiamato ove si disciplina il procedimento dell’accordo integrativo o di quello sostitutivo di provvedimento.
In due soli commi 1 e 1bis è racchiuso il procedimento applicabile alla pianificazione urbanistica cui si aggiunge in linea generale il comma 2 bis dell’articolo 1 principi generali dell’attività amministrativa che richiama il principio di collaborazione e buona fede nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione.
È certamente poca cosa ma costituisce il fondamento sia della legittimazione dell’azione amministrativa a misurarsi tra “autorità e consenso” sia dell’obbligo della Pubblica Amministrazioni ad agire attraverso forme partecipative per determinare il nuovo assetto dei suoli da rigenerare.
Sulla base di tali esigenze da soddisfare, va richiamata la legislazione regionale che a questi fini ha previsto una disciplina della partecipazione popolare alle scelte di pianificazione – che potremmo chiamare “degli accordi normativi – rinviando all’autonomia dei comuni la fissazione delle “regole” mediante regolamenti comunali.
È assodato, tuttavia, che le pratiche ora richiamate non sembrano costituire un punto fermo dell’azione amministrativa specie lì dove si muovono forti interessi economici in deroga al piano e, d’altronde, dopo la separazione tra politica e amministrazione questa costituisce spesso un solco invalicabile tra la volontà politica del governo locale e la funzione amministrativa alla cui osservanza è tenuta l’amministrazione esecutiva. Si allude qui alla responsabilità dei dirigenti cui compete la regolamentazione del procedimento partecipativo o contrattuale di cui all’art 11. E sotto quest’ultimo profilo è noto che l’accordo sostitutivo di provvedimento richiama il comma 2 dell’art. 11 relativamente ai principi del Codice civile in materia di obbligazioni e contratti, ed in particolare il comma 4 bis ove, non a caso, viene richiamata la determinazione preventiva dell’organo competente all’adozione del provvedimento. Danno erariale, interessi privati in atti d’ufficio, dolo o colpa grave minano in molti casi la decisione ai fini dell’attuazione degli interventi.
È proprio questo il caso in cui potrebbe emergere il tema della mancata o inadeguata misurazione dell’interesse pubblico in rapporto alla soddisfazione degli interessi privati.
La questione evoca il tema più generale della crisi della democrazia rappresentativa poiché molto spesso i governi locali non sono in grado di interpretare gli interessi della collettività – tanto più nel caso della riqualificazione di parti di città – cosicché assistiamo – specie nel caso di progetti in variazione al piano – all’emergere di un terzo soggetto – escluso dalla partecipazione alla codeterminazione degli assetti urbanistici – che si pone come antagonista delle scelte in funzione degli interessi pubblici da perseguire. È il caso delle associazioni ambientaliste, dei comitati cittadini – in breve degli interessi diffusi.
L’ammissibilità di questi soggetti a ricorrere al giudice amministrativo contro i provvedimenti pianificatori che mettono in essere scambi ineguali o sleali, ovvero che non rispondono al perseguimento dell’interesse pubblico, costituisce un altro elemento di riflessione per riportare la trasformazione urbana nell’ambito della legalità.
Ulteriori approfondimenti
Urbani P. (2020), Istituzioni, Economia; territorio. Il gioco delle responsabilità nelle politiche di sviluppo. Giappichelli.