Oggi partecipazione è un termine consumato ma la discussione avviata da Chiara Barattucci nel numero 55 di DiTe sul suo rapporto con il populismo ha permesso di tornare a riflettere su un approccio alla progettazione urbanistica che a partire dall’insegnamento di Giancarlo De Carlo ha attraversato diversi momenti.
Nel libro “Cities of Tomorrow”, Peter Hall sostiene che John Turner, considerato il padre fondatore della Community architecture e del community planning, era stato stimolato a riflettere sulla relazione tra architettura e partecipazione ad una conferenza tenuta nel 1948 alla Architectural Association da un giovane architetto anarchico italiano, Giancarlo De Carlo. De Carlo in quella occasione denunciava le condizioni miserevoli della povera gente nell’Italia del dopoguerra, lo squallore di molti interventi di edilizia pubblica ed invocava la necessità di coinvolgere gli abitanti nella progettazione delle proprie case e dei propri ambienti di vita.
Secondo Peter Hall, dunque, De Carlo, che nel 1948 non aveva ancora 30 anni, sarebbe alla radice di un movimento non solo italiano ma europeo e mondiale, di scoperta e valorizzazione della partecipazione dei destinatari alla produzione dei progetti delle loro case e della loro città. De Carlo, come ha ricordato Franco Mancuso nello stesso numero della rivista, ha applicato questa sua concezione in numerosi progetti di urbanistica e di architettura, dal Piano Regolatore di Urbino, al Piano per il centro di Rimini, al Villaggio Matteotti a Terni.
Da allora la necessità di uscire dai recinti chiusi della propria competenza disciplinare, da un ruolo tecnico che si credeva al di sopra delle parti, per aprire alla partecipazione dei destinatari di progetti e politiche, ha visto diverse interpretazioni, rimanendo sempre una posizione minoritaria ma viva.
Come ricorda Paolo Fareri citato da Gabriele Pasqui nel suo articolo sulla stessa rivista, si possono individuare diverse fasi dei processi partecipativi che hanno visto l’alternarsi di istanze dal basso ad approcci dall’alto.
Sono state istanze dal basso le lotte dei quartieri degli anni ’70 per la rivendicazione di servizi e attrezzature che gli interventi pubblici e privati non contemplavano. Sono state istanze dal basso quelle delle opposizioni agli interventi dannosi per l’ambiente secondo i principi della sindrome NIMBY, sviluppati a partire dagli anni ’80, contro la realizzazione di autostrade, inceneritori, aeroporti e ogni tipo di infrastruttura che potesse arrecare danno alle comunità insediate. Sono state invece istanze dall’alto quelle che, sulla spinta di amministratori o tecnici innovatori, e sulla base di un movimento culturale transnazionale, hanno iniziato ad usare la partecipazione come strumento del progetto o della costruzione di politiche a partire dagli anni ’90. Una fase nella quale ad esempio nell’urbanistica italiana è venuta meno la presa dei partiti sugli incarichi professionali, anche a causa della crisi conseguente allo scandalo di Tangentopoli dei primi anni del decennio.
Gli anni 2000 si aprono dunque in un paesaggio molto articolato dal punto di vista delle pratiche di progettazione partecipata. Ci sono iniziative autonomamente sviluppate da comitati e gruppi di abitanti non solo per protestare e bloccare interventi dannosi, ma anche per realizzare giardini e spazi condivisi. Ci sono amministrazioni che adottano procedure e pratiche di progettazione partecipata nello sviluppo delle proprie politiche locali. Ci sono profili professionali che sviluppano competenze specifiche nella gestione di processi di gruppo non solo tra gli urbanisti. Ci sono Regioni come la Toscana che promulgano leggi sulla partecipazione ed istituiscono la figura del “garante della partecipazione”. Si sviluppa una vasta letteratura sulla partecipazione, l’inclusione, la coprogettazione.
Si può osservare che in questi stessi anni prendono piede le forme più note del populismo in politica. Pur non essendo io un esperto, mi sembra che si possano individuare almeno due forme di populismo, quella che mette in discussione la democrazia rappresentativa istituendo un rapporto diretto tra il leader che decide e il popolo, raffigurato come una entità omogenea, e quella che invece sfida la democrazia rappresentativa perché contraria ad ogni forma di intermediazione alla luce del fatto che la digitalizzazione consentirebbe di decidere sempre in modo diretto facendo esprimere il popolo su tutte le questioni, secondo la formula del ”uno vale uno”. La seconda versione incrocia certamente le esperienze maturate in questi anni nel mondo della società che si attiva, anche nelle pratiche di partecipazione, ma le conclusioni cui arriva sono del tutto diverse.
Ritornando all’urbanistica nelle forme più interessanti di progettazione partecipata non c’è l’idea di una sostituzione della decisione politica attraverso il ricorso agli abitanti. C’è piuttosto l’idea di informare meglio la decisione, favorendo la acquisizione di informazioni esperienziali di cui solo gli abitanti sono depositari, riconoscendo il valore del conflitto come indicatore della varietà delle posizioni di cui tener conto, mettendo ogni proposta alla prova del confronto con le diverse istanze, alimentando la conoscenza locale con la conoscenza esperta ed alimentando la conoscenza esperta con la conoscenza locale.
Si tratta quindi, nelle esperienze di vera partecipazione di un rafforzamento della democrazia nella sua dimensione sostanziale e non formale che arricchisce l’esito finale di ogni processo decisionale collettivo in merito alla città.
Vorrei aggiungere che forse la lunga storia della progettazione partecipata, dalla denuncia di De Carlo e fino ad oggi, nel suo alternarsi tra istanze di rivendicazione della partecipazione dal basso e iniziative di promozione della partecipazione dall’alto, forse anche come reazione alle degenerazioni del populismo, può indicare una strada valida per un ripensamento delle politiche urbane più in generale, non solo per quanti sono già orientati all’innovazione.
Potrebbero esserci oggi le condizioni per esplorare un nuovo incontro tra “alto” e “basso”.
Una stagione di politiche nelle quali una amministrazione pubblica abilitante, consapevole dei propri limiti, è capace di coinvolgere nella realizzazione dei propri obiettivi di sostenibilità e sviluppo la cittadinanza attiva, che da sola fatica a produrre azioni risolutive e durature.
Se si verificasse questo incontro potremmo forse non dover più parlare di partecipazione.
Ulteriori approfondimenti
- Hall, P. (1996), Cities of Tomorrow: An Intellectual History of Urban Planning and Design in the Twentieth Century. Wiley
- AA.VV, “Come Cambiano i mestieri dell’urbanista” sezione monografica della rivista Territorio, n. 7/1998
- Samassa, F., (2024) Gancarlo De Carlo, Carocci, Roma