Il reshoring, nelle sue forme di nearshoring (da paesi extra-UE verso quelli europei) e di backshoring (riportando la produzione nell’area dove precedentemente avveniva), sembra essere una strategia caldeggiata dall’UE per mettere in atto il proprio processo di reindustrializzazione. Nonostante si ritenga che il reshoring possa migliorare la performance dell’impresa e possa essere quindi vantaggioso per il Paese che lo mette in pratica, l’indagine empirica del fenomeno e dei suoi effetti reali è ancora piuttosto limitata.
Esiste infatti una letteratura basata su casi di studio a livello di impresa che indica le motivazioni che spingono le grandi multinazionali a riportare le proprie attività nei paesi di origine, analizzando il fenomeno e i suoi effetti da un punto di vista “micro”. Ciò che invece ancora in gran parte manca è un approccio macroeconomico aggregato, in grado di cogliere l’entità complessiva della questione e delle sue conseguenze (con alcune eccezioni a livello teorico). Per ragionare a livello macroeconomico, il backshoring deve essere interpretato come un processo secondo il quale la produzione di un paese (o regione) utilizza nuovamente una quota maggiore di input nazionali rispetto a quelli esteri. Questo fenomeno può essere il risultato di due effetti. Può dipendere dal fatto che le multinazionali riportano nei paesi d’origine le loro funzioni produttive (ciò che nella letteratura economica internazionale viene chiamato backshoring) oppure da imprese situate nel paese d’origine che producono beni intermedi precedentemente importati. A livello aggregato, l’effetto è quello di stimolare la produzione locale nelle stesse industrie e/o in quelle affini, attraverso rapporti input/output. Per essere sicuri che in queste condizioni abbia luogo un processo di reshoring, questo processo deve avvenire in aree che hanno attraversato un periodo di deindustrializzazione e che ora si stanno reindustrializzando.
Sebbene esistano alcuni tentativi di misurare un processo di reshoring (o backshoring) a livello aggregato, si sa poco sugli effetti aggregati che esso genera. Si può già parlare di rilancio dell’occupazione manifatturiera guardando i dati aggregati attraverso il backshoring, oppure questo fenomeno è ancora da trattare in modo aneddotico, con effetti macroeconomici sui paesi di origine ancora da manifestarsi?
Attraverso un’analisi econometrica, abbiamo cercato di superare questo limite e abbiamo verificato a livello aggregato la relazione tra backshoring e crescita dell’occupazione manifatturiera nelle regioni europee[1]. I risultati sono stati interessanti in quanto hanno rivelato che il backshoring di per sé non mostra alcun contributo significativo alla crescita dell’occupazione manifatturiera. Questo risultato può avere diverse spiegazioni. Può essere dovuto al fatto che la reindustrializzazione non sia associata a una diminuzione del valore aggiunto estero. Ma può anche darsi che il valore aggiunto locale generato dalla produzione di beni intermedi precedentemente importati sia generato da processi produttivi intensivi, attraverso la nuova automazione e le tecnologie digitali, per cui gli effetti espansivi si registrano sul valore aggiunto e non sull’occupazione. Oppure, infine, può essere il risultato medio dell’eterogeneità spaziale negli impatti del backshoring sulle catene globali del valore e sulle dinamiche occupazionali.
Abbiamo approfondito questo ultimo aspetto, analizzando l’effetto del backshoring sulla dinamica occupazionale in regioni storicamente manifatturiere rispetto a quelle di nuova industrializzazione. I risultati sono estremamente interessanti, perché mostrano che i due gruppi di regioni si comportano in modo opposto. Le regioni di backshoring tradizionalmente manifatturiere, infatti, registrano una crescita occupazionale del manifatturiero più elevata (0.4% all’anno più delle altre regioni, il che si traduce in circa 120.000 posti di lavoro aggiuntivi in tre anni rispetto alle altre regioni), mentre la performance occupazionale è peggiore che altrove nelle regioni di backshoring in cui il settore manifatturiero è emergente. Ciò significa che le regioni di backshoring tradizionalmente manifatturiere vengono associate a processi produttivi espansivi, rilanciando la vocazione industriale dell’Europa, e dimostrando che è ancora possibile trarre vantaggio dal know-how tradizionale. Per le regioni ad industrializzazione emergente, invece, si profila una storia diversa. In particolare, queste regioni sembrano associare l’avvio di attività manifatturiere a processi produttivi intensivi, ottenuti attraverso incrementi di efficienza legati a processi di automazione e digitalizzazione.
Tutto questo è particolarmente interessante, dal momento che l’UE sembra perseguire due obiettivi concorrenti. Punta ad una moderna reindustrializzazione e allo stesso tempo ad un rilancio dell’occupazione nel settore manifatturiero. Sebbene siano entrambi ampiamente condivisibili, è specialmente importante considerare che i due propositi sono potenzialmente in conflitto all’interno della stessa regione. La nostra analisi suggerisce che le due strategie devono essere applicate in modo saggio. Moderne strategie di reindustrializzazione possono essere perseguite in alcune aree manifatturiere emergenti, mentre una strategia di rilancio dell’occupazione nel settore manifatturiero sembra essere più efficace nelle regioni tradizionalmente manifatturiere. Ancora una volta, ciò richiede politiche industriali specifiche per gruppi di regioni.
[1] Capello R. and S. Cerisola (2024) Backshoring and regional manufacturing employment dynamics, Regional Studies, vol. 58 (12), pp. 2339-2352. DOI:10.1080/00343404.2024.2358836.