Gli ultimi quindici anni sono stati caratterizzati da un trend decrescente dell’integrazione economica internazionale. Il volume di importazioni mondiali interessato da qualche forma di restrizione o dazio è passato dal 3,66 al 9,39 per cento tra il 2015 e il 2022 (WTO, 2023[1]). Diversi fattori hanno causato questa tendenza, tra cui la pandemia di COVID-19 e la crescente instabilità geopolitica globale. Un fattore parzialmente trascurato, tuttavia, è rappresentato dalla crescente domanda di protezionismo da parte dei cittadini, soprattutto nei paesi più sviluppati economicamente.
Questo sentimento si è tradotto in un crescente sostegno elettorale per movimenti politici in aperta opposizione all’integrazione economica internazionale. Il referendum sulla Brexit nel giugno 2016 o la duplice vittoria di Trump alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti sono alcuni esempi di questo fenomeno. Vale la pena notare come, malgrado siano ormai passati quasi dieci anni dall’inatteso risultato del referendum sulla Brexit, ogni nuovo successo dei partiti anti-integrazione – per ultima la netta vittoria di Trump alle elezioni americane di novembre – sia accolto con una certa sorpresa dall’opinione pubblica. Ciò riflette una scarsa comprensione delle determinanti di tali preferenze elettorali e, tra queste, dell’opposizione al libero commercio internazionale.
Il progetto TWIN SEEDS si è occupato di questo tema, studiando le determinanti della percezione dei cittadini dell’Unione Europea rispetto al commercio internazionale. L’idea alla base dello studio è che il commercio internazionale generi due tipi di effetti (Perucca, 2024[2]).
Il primo effetto è di natura individuale, ovvero riguarda i costi e benefici che il commercio internazionale produce sul benessere delle singole persone. Questi costi e benefici possono essere di vario tipo, ma nei paesi più sviluppati sono tipicamente a favore degli individui con maggior istruzione e qualificazione professionale. Questo perché il commercio internazionale – attraverso le catene globali del valore e la delocalizzazione di alcune fasi produttive di bassa complessità – tende a ridurre nei paesi avanzati l’offerta di lavoro per profili poco qualificati.
Il secondo effetto è invece di natura collettiva, e fa riferimento ai costi e benefici che il commercio internazionale produce sul benessere aggregato di una comunità. Anche in questo caso, nei paesi più sviluppati questo effetto tende a favorire le comunità a maggior densità di capitale umano altamente qualificato. La delocalizzazione produttiva può infatti generare, in aree specializzate in fasi produttive poco complesse, effetti negativi, quali un aumento della disoccupazione e quindi del tasso di povertà, minori opportunità e prospettive future per la popolazione.
Lo studio ha utilizzato i dati di due indagini condotte nei paesi dell’Unione Europea, nelle quali ognuno degli oltre 40.000 cittadini dei 27 Stati Membri (oltre al Regno Unito) intervistati ha dichiarato se ritiene che il commercio internazionale produca, a livello personale, più costi che benefici. Questa percezione negativa del commercio internazionale è stata analizzata in relazione a tre caratteristiche principali. La prima è il profilo occupazionale degli individui, classificati in diverse categorie in base alla loro qualifica professionale. La seconda è il profilo di specializzazione occupazionale delle regioni in cui risiedono i rispondenti, anche in questo caso classificate in base alla specializzazione in fasi produttive più o meno complesse ed avanzate. Infine, la terza caratteristica è costituita dall’intensità della partecipazione delle regioni al commercio internazionale.
I risultati mostrano come, in media, gli individui con bassa qualifica professionale siano, rispetto alle altre categorie, maggiormente contrari al commercio internazionale. Questa percezione non cambia al variare né della specializzazione occupazionale della comunità in cui vivono, né dell’intensità di partecipazione della loro regione al commercio internazionale. Ciò è coerente con l’aspettativa che l’integrazione economica internazionale sia meno vantaggiosa per gli individui professionalmente meno qualificati.
Gli individui ad alta qualifica professionale mostrano una percezione dei benefici del commercio internazionale fortemente influenzata dalla tipologia di comunità in cui vivono. In regioni specializzate in fasi di produzione poco avanzate, gli individui altamente qualificati hanno una percezione del commercio internazionale negativa, analoga a quella degli individui a bassa qualifica professionale. In regioni specializzate in fasi di produzione avanzate, invece, gli individui più professionalmente qualificati percepiscono il commercio internazionale in maniera sensibilmente migliore. Questo risultato è coerente con l’idea che l’integrazione commerciale generi i maggiori costi nelle comunità specializzate in fasi produttive meno avanzate, riducendo il benessere di tutta la popolazione, indipendentemente dalla qualifica professionale individuale.
In maniera analoga, nelle regioni più chiuse al commercio internazionale, gli individui altamente qualificati percepiscono il commercio internazionale negativamente. Questa categoria di individui aumenta il supporto all’integrazione economica tra nazioni quando vivono in comunità a più elevata intensità di commercio con l’estero. Anche in questo caso, ciò è in linea con l’ipotesi che il commercio internazionale generi benefici individuali soprattutto per gli individui professionalmente più qualificati.
Considerati nel loro insieme, i risultati di questo studio mostrano come le comunità maggiormente ostili al commercio internazionale siano quelle escluse dalle reti del commercio, ed a bassa specializzazione in attività economiche avanzate. Il fatto che questo porti – insieme ad altri fattori – ad un aumento della domanda di protezionismo, e conseguentemente alla riduzione dell’integrazione economica tra paesi, genera effetti aggregati negativi sul benessere sociale. Politiche redistributive dei benefici dell’integrazione economica tra territori e gruppi di individui potrebbero mitigare questi effetti.
[1] WTO (2023). Trade Monitoring report, 2023. World Trade Organization.
[2] Perucca (2024). Individuals’ perception of trade and exposure to Global Value Chains: evidence from EU regions. Mimeo, available from the author upon request.