30 Gennaio, 2025

Chi si oppone al commercio internazionale? Costi e benefici percepiti nelle regioni dell’Unione Europea

Tempo di lettura: 4 minuti

Gli ultimi quindici anni sono stati caratterizzati da un trend decrescente dell’integrazione economica internazionale. Il volume di importazioni mondiali interessato da qualche forma di restrizione o dazio è passato dal 3,66 al 9,39 per cento tra il 2015 e il 2022 (WTO, 2023[1]). Diversi fattori hanno causato questa tendenza, tra cui la pandemia di COVID-19 e la crescente instabilità geopolitica globale. Un fattore parzialmente trascurato, tuttavia, è rappresentato dalla crescente domanda di protezionismo da parte dei cittadini, soprattutto nei paesi più sviluppati economicamente.

Questo sentimento si è tradotto in un crescente sostegno elettorale per movimenti politici in aperta opposizione all’integrazione economica internazionale. Il referendum sulla Brexit nel giugno 2016 o la duplice vittoria di Trump alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti sono alcuni esempi di questo fenomeno. Vale la pena notare come, malgrado siano ormai passati quasi dieci anni dall’inatteso risultato del referendum sulla Brexit, ogni nuovo successo dei partiti anti-integrazione – per ultima la netta vittoria di Trump alle elezioni americane di novembre – sia accolto con una certa sorpresa dall’opinione pubblica. Ciò riflette una scarsa comprensione delle determinanti di tali preferenze elettorali e, tra queste, dell’opposizione al libero commercio internazionale.

Il progetto TWIN SEEDS si è occupato di questo tema, studiando le determinanti della percezione dei cittadini dell’Unione Europea rispetto al commercio internazionale. L’idea alla base dello studio è che il commercio internazionale generi due tipi di effetti (Perucca, 2024[2]).

Il primo effetto è di natura individuale, ovvero riguarda i costi e benefici che il commercio internazionale produce sul benessere delle singole persone. Questi costi e benefici possono essere di vario tipo, ma nei paesi più sviluppati sono tipicamente a favore degli individui con maggior istruzione e qualificazione professionale. Questo perché il commercio internazionale – attraverso le catene globali del valore e la delocalizzazione di alcune fasi produttive di bassa complessità – tende a ridurre nei paesi avanzati l’offerta di lavoro per profili poco qualificati.

Il secondo effetto è invece di natura collettiva, e fa riferimento ai costi e benefici che il commercio internazionale produce sul benessere aggregato di una comunità. Anche in questo caso, nei paesi più sviluppati questo effetto tende a favorire le comunità a maggior densità di capitale umano altamente qualificato. La delocalizzazione produttiva può infatti generare, in aree specializzate in fasi produttive poco complesse, effetti negativi, quali un aumento della disoccupazione e quindi del tasso di povertà, minori opportunità e prospettive future per la popolazione.

Lo studio ha utilizzato i dati di due indagini condotte nei paesi dell’Unione Europea, nelle quali ognuno degli oltre 40.000 cittadini dei 27 Stati Membri (oltre al Regno Unito) intervistati ha dichiarato se ritiene che il commercio internazionale produca, a livello personale, più costi che benefici. Questa percezione negativa del commercio internazionale è stata analizzata in relazione a tre caratteristiche principali. La prima è il profilo occupazionale degli individui, classificati in diverse categorie in base alla loro qualifica professionale. La seconda è il profilo di specializzazione occupazionale delle regioni in cui risiedono i rispondenti, anche in questo caso classificate in base alla specializzazione in fasi produttive più o meno complesse ed avanzate. Infine, la terza caratteristica è costituita dall’intensità della partecipazione delle regioni al commercio internazionale.

I risultati mostrano come, in media, gli individui con bassa qualifica professionale siano, rispetto alle altre categorie, maggiormente contrari al commercio internazionale. Questa percezione non cambia al variare né della specializzazione occupazionale della comunità in cui vivono, né dell’intensità di partecipazione della loro regione al commercio internazionale. Ciò è coerente con l’aspettativa che l’integrazione economica internazionale sia meno vantaggiosa per gli individui professionalmente meno qualificati.

Gli individui ad alta qualifica professionale mostrano una percezione dei benefici del commercio internazionale fortemente influenzata dalla tipologia di comunità in cui vivono. In regioni specializzate in fasi di produzione poco avanzate, gli individui altamente qualificati hanno una percezione del commercio internazionale negativa, analoga a quella degli individui a bassa qualifica professionale. In regioni specializzate in fasi di produzione avanzate, invece, gli individui più professionalmente qualificati percepiscono il commercio internazionale in maniera sensibilmente migliore. Questo risultato è coerente con l’idea che l’integrazione commerciale generi i maggiori costi nelle comunità specializzate in fasi produttive meno avanzate, riducendo il benessere di tutta la popolazione, indipendentemente dalla qualifica professionale individuale.

In maniera analoga, nelle regioni più chiuse al commercio internazionale, gli individui altamente qualificati percepiscono il commercio internazionale negativamente. Questa categoria di individui aumenta il supporto all’integrazione economica tra nazioni quando vivono in comunità a più elevata intensità di commercio con l’estero. Anche in questo caso, ciò è in linea con l’ipotesi che il commercio internazionale generi benefici individuali soprattutto per gli individui professionalmente più qualificati.

Considerati nel loro insieme, i risultati di questo studio mostrano come le comunità maggiormente ostili al commercio internazionale siano quelle escluse dalle reti del commercio, ed a bassa specializzazione in attività economiche avanzate. Il fatto che questo porti – insieme ad altri fattori – ad un aumento della domanda di protezionismo, e conseguentemente alla riduzione dell’integrazione economica tra paesi, genera effetti aggregati negativi sul benessere sociale. Politiche redistributive dei benefici dell’integrazione economica tra territori e gruppi di individui potrebbero mitigare questi effetti.


[1] WTO (2023). Trade Monitoring report, 2023. World Trade Organization.   

[2] Perucca (2024). Individuals’ perception of trade and exposure to Global Value Chains: evidence from EU regions. Mimeo, available from the author upon request.

Articoli correlati

Backshoring: una vera strategia di rilancio per le regioni Europee?

Il backshoring si configura come una strategia chiave per il rilancio dell’economia europea, e a sostegno delle criticità dell’economia europea evidenziate dal Rapporto Draghi (2024). All’interno del progetto Horizon TWIN SEEDS sono state sviluppate molte analisi volte alla comprensione dell’impatto del backshoring sulle dinamiche occupazionali, sulla crescita e sulle disparità regionali. Il risultato è molto chiaro: il rientro delle attività industriali in Europa favorisce crescita e occupazione in modo territorialmente disomogeneo, un processo che porta ad un deterioramento della disparità tra regioni e, all’interno di esse, della distribuzione del reddito tra gruppi di individui e tra fattori produttivi. Il rischio di accentuazione delle disuguaglianze rende imprescindibile l’adozione di politiche di supporto volte a mitigare gli effetti negativi e a garantire una transizione equilibrata.

Backshoring e dinamica occupazionale manifatturiera

Il reshoring, nelle forme di nearshoring e backshoring, è promosso dall’UE per avviare un processo di reindustrializzazione, ma gli effetti di questo fenomeno a livello macroeconomico restano poco studiati. Un’analisi econometrica mostra che in media il backshoring incide poco sulla crescita occupazionale manifatturiera, suggerendo che automazione e tecnologie digitali creino valore senza aumentare l’occupazione. Tuttavia, il fenomeno ha effetti diversi in regioni diverse. Nelle regioni manifatturiere tradizionali, grazie al backshoring, l’occupazione registra un incremento, ad indicare che la reindustrializzazione permette un rilancio delle tradizionali vocazioni industriali locali. Lo stesso effetto positivo non è individuato nelle regioni che emergono come nuove localizzazioni manifatturiere in Europa, a sostegno dell’importanza e della necessità di politiche industriali mirate per tipologie di regioni.

Catene del valore globale e polarizzazione del mercato del lavoro locale

Il concetto di polarizzazione del mercato del lavoro, teorizzato dagli economisti americani Katz, Autor e Acemoglu, descrive la crescita dell’occupazione nelle occupazioni altamente qualificate e in quelle a basso salario, a discapito delle professioni intermedie. Nel progetto Twin Seeds, si dimostra che le catene globali del valore (GVC) hanno amplificato il fenomeno, consentendo alle imprese di esternalizzare attività meno strategiche. L’analisi mostra infatti come la presenza sia delle case madri sia delle imprese controllate contribuiscano alla polarizzazione. Questi risultati suggeriscono che esiste uno spazio normativo per mitigarne gli effetti.