L’arte contemporanea è un paesaggio caratterizzato da una forte disomogeneità, un paesaggio a geometria e densità variabili. Attraversarlo vuol dire avventurarsi in un viaggio per paesi sempre diversi. Il termine “arte pubblica” – sostiene Pablo Helguera – è talmente invocato in molti contesti e situazioni che ha perso ogni significato stabile. Tuttavia se si rinuncia a un atteggiamento da classificatore seriale e l’obiettivo dell’attraversamento diventa non tanto la ricerca di un’esatta tassonomia quanto piuttosto la possibilità di riconoscere ed esplorare inattese convergenze, si potranno individuare alcuni nodi cruciali. Tra questi vi è sicuramente quello che in un suo recente saggio Vincenzo Trione definisce come una nuova forma di arte politica: l’artivismo.
Gli artivisti sono artisti e attivisti allo stesso tempo, sono militanti, nelle loro opere combinano estetica ed etica. Per gli artivisti l’arte è esperienza conoscitiva che si realizza attraverso l’azione. L’arte è pratica di vita activa in cui l’azione, secondo la definizione di Hannah Arendt, corrisponde alla condizione della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo. Questa pluralità è specificamente la condizione – non solo la conditio sine qua non, ma la conditio per quam – di ogni vita politica. Tratto distintivo dell’artivismo è, quindi, la sua dimensione plurale. I suoi protagonisti sono artisti inclini a socializzare, condividere, mettere in comune, il loro campo d’azione. Attraverso linguaggi e mezzi diversi, alimentano, promuovono e, in alcuni casi, creano il dibattito sul mondo nel quale e dal quale la loro stessa arte viene prodotta. Ecologia, disuguaglianze, diritti, sono le coordinate principali che definiscono l’ambito tematico in cui si situa questa polimorfa tendenza artistica che, alimentata da vocazione civile e passione politica, trova le migliori condizioni per esprimersi nei contesti marginalizzati.
La stretta relazione tra artivismo e aree marginalizzate definisce in maniera abbastanza chiara i contorni di un fenomeno che da alcuni anni si manifesta con crescente intensità: il diffondersi di processi e pratiche di riappropriazione e riattivazione di luoghi e paesaggi a partire da esperienze creative e artistiche nelle aree interne del nostro Paese. La Strategia per le Aree Interne (SNAI), prima, e i finanziamenti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), poi, hanno inciso in maniera significativa sulle dinamiche di questa relazione delineando scenari non privi di contraddizioni.
L’improvvisa disponibilità di finanziamenti offerta dal PNRR – che attraverso la Componente 3 (Turismo e Cultura 4.0) della Missione 1 (Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo) destina oltre quattro miliardi di euro alla cultura e di questi ne assegna uno alla realizzazione del Piano Nazionale Borghi – ha di fatto sostenuto e accelerato, non solo finanziariamente, l’affermarsi di quella che Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi hanno definito borgomania. Si tratta di una mistificazione in cui il termine “borgo” diventa sinonimo di piccolo insediamento urbano e si cristallizza attraverso un paradigma che si alimenta di stereotipi, di immaginari omologanti, di rappresentazioni devianti. Alla narrazione dominante sui borghi che s’incardina su processi di valorizzazione, patrimonializzazione e turistificazione si oppone una visione che ricolloca al centro i luoghi e le comunità e che guarda alle aree interne come territori da abitare, o ri-abitare, e non soltanto da visitare. Si tratta di una visione che richiede un capovolgimento di senso perché solo passando dai borghi ai paesi è possibile realizzare quelle condizioni necessarie per sperimentare pratiche di innovazione sociale, culturale ed economica.
L’uso estensivo e generalizzato del termine borgo produce un’immagine oleografica delle aree interne che mal si coniuga con quelli che sono i caratteri propri dell’artivismo. Sono dunque i paesi e non i borghi i contesti in cui questa forma di arte politica può misurarsi con quel carattere di pluralità che le garantisce una adeguata distanza da rischi quali il pedagogismo e il politicamente corretto, o ancora peggio, il moralismo e l’estetizzazione.
La Basilicata è una regione interna. Nella nuova mappa della Strategia Nazionale delle Aree Interne per il ciclo di programmazione 2021-2027, il solo capoluogo di regione viene classificato come “polo”. Anche la città di Matera, che pure è stata Capitale Europea della Cultura nel 2019, è stata declassata da polo a comune intermedio. Su un totale di 131 comuni ben 95, il 72,5%, sono definiti periferici o ultraperiferici. Se consideriamo il solo dato demografico, il declino, che pure interessa tutta l’Italia, osservato da qui sembra inesorabile. Nel 2022 duemila persone hanno lasciato la Regione e, secondo una elaborazione de il Sole 24Ore, nel 2030 la popolazione residente in attività si ridurrà di 40.600 unità. Al contrario, i dati sul turismo registrano un trend positivo. Gli arrivi sono aumentati del 32,24% rispetto all’anno precedente, e nella sola città di Matera c’è stato un aumento di quasi il 48% degli arrivi tra 2022 e 2021 e di oltre il 55% delle presenze. (fonte Agenzia di Promozione Territoriale della Basilicata). La lettura incrociata di questi dati fa emergere in maniera abbastanza netta uno scenario definito da un lato dall’abbandono e dall’altro dalla turistificazione, che nel caso specifico della città di Matera assume le caratteristiche dell’overtourism. Se in questo scenario aggiungiamo le conseguenze derivanti dalla narrazione del borgo felix le tinte si fanno fosche e l’urgenza di invertire il paradigma diventa evidente. In questa prospettiva l’artivismo si configura come un dispositivo necessario per abilitare comunità, luoghi e paesaggi.
Ulteriori approfondimenti
- Trione V. (2022), Artivismo. Arte, politica, impegno. Torino: Giulio Einaudi Editore.
- Barbera F., Cersosimo D., De Rossi A. (a cura di) (2022), Contro i Borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi. Roma: Donzelli Editore