18 Gennaio, 2025

Di chi è la città?

Tempo di lettura: 6 minuti

Libri come “Abitare il vortice” sono più che necessari, per almeno due motivi. Il primo è, per così dire, di stile. Il libro ha infatti le finalità tipiche di un saggio ma le affronta con un piglio spiccatamente narrativo, alternando temi quali il postfordismo, il city branding, le piattaforme digitali, la cultura e la creatività, la disneyficazione, il decoro, la questione abitativa, la pandemia e così via, con il racconto, l’esperienza, la prospettiva personale e lo stesso percorso di vita dell’autore. È uno stile molto efficace nell’esposizione, oltre che piacevole nella lettura, che in Italia è praticato troppo poco, spesso da non accademici – su questi argomenti viene in mente Sarah Gainsforth, peraltro anche qui più volte citata. L’esito nella formula base è quello della sintesi divulgativa. Nei casi migliori si tratta niente meno che di articolare una proposta politico-culturale; oppure entrambe le cose, come è appunto il caso di questo libro.
In secondo luogo libri come questo sono più che necessari perché è difficile trovare oggi una scienza sociale critica che non ponga al centro del proprio discorso il territorio o proprio l’oggetto del libro: la città. Ed è altrettanto difficile pensare a un qualsiasi ‘alternativa’ nel desolante paesaggio odierno che non faccia i conti con questo strano oggetto che sono le forme altrettanto desolanti che hanno assunto la territorialità e l’urbanità. Ma sebbene ai fini di questa alternativa gli studi urbani o le scienze sociali abbiano prodotto spunti magnifici, di essa nella sua forma compiuta non vi è ancora traccia, a meno di non andare sotto traccia e mettere insieme tanti pezzi, come appunto questo libro fa. L’obiettivo è “costruire nuovi legami di senso” tra fatti distinti ma determinanti nella produzione dello spazio urbano contemporaneo, per ripoliticizzare il modo di guardare a questi fatti e alla città.
Un esempio è, nella parte iniziale, il racconto del senso di spaseamento che l’autore vive trasferendosi molto giovane da una città stratificata e frammentata ma comunque ‘città’, come Grosseto, all’hinterland milanese. Vediamo così con gli occhi stessi dell’autore il passaggio cruciale attraverso il quale le città smettono di essere unità morfologiche per diluirsi in insiemi multipolari e transcalari di relazioni. Ma come, appunto, dare un senso, a questa schizofrenica frammentarietà? E quanto spesso nel discorso pubblico continuiamo ad identificare le città come unità morfologiche? Il problema è appunto che con la gran parte delle trasformazioni della città contemporanea non abbiamo ancora imparato a fare i conti.
Negli anni di formazione dell’autore – che poi sono più o meno gli anni in cui mi sono formato io – si era d’altronde esaurita una lunga stagione nella quale il tema veniva affrontato appunto come un problema di forma urbana (suburbanizzazione, metropolizzazione, e così via), con un sostanziale ottimismo circa le capacità delle politiche pubbliche di dare un senso a questi processi. Si andava piuttosto in cerca di narrative più ampie e radicali che si affidavano però a logiche binarie sovrapponendo morfologie reticolari a quelle più propriamente territoriali, e che poi sono state fortemente criticate: locale/globale, luogo/non-luogo, lo “spazio dei flussi” contro lo “spazio dei luoghi” (Manuel Castells), l’iperconnessione locale e la disconnessione locale (Saskia Sassen), radicamento e sradicamento, territorialità e deterritorializzazione.
Il libro parte inevitabilmente da qui per poi andare oltre, seguendo da un lato l’evoluzione del dibattito e dall’altro l’itinerario personale dell’autore. Esemplificative in questo senso sono le esperienze dell’autore tra quartieri in via di gentrificazione di Milano e Berlino, nei quali egli è allo stesso tempo osservatore e agente delle trasformazioni urbane, in quanto studioso e, allo stesso tempo, artista e organizzatore artistico e culturale, ovvero appartenente a pieno titolo a quella ‘classe creativa’ di cui in quegli anni si è tanto parlato.
Il passaggio cruciale, è che a mio avviso il punto di partenza di qualsiasi studio urbano effettivamente ‘critico’, è smettere di guardare alle forme che il territorio assume per concentrarsi sui processi che tali forme producono, ma leggendoli a partire da queste stesse forme. È inevitabile che, in questo, il tema della gentrificazione diventi cruciale, occupi quasi tutta la scena. Il punto, come ci ha insegnato la geografia radicale, non è tanto la gentrificazione come fatto in sé, o quello che succede in ciascuno delle miriadi di luoghi dove essa si produce, ma piuttosto quanto essa rimandi ad interrogativi più ampi che sono solo oggi finalmente divenuti centrali ma che rimangono in larga parte irrisolti: come si produce ‘valore’ nella città e nell’economia prettamente urbana contemporanea? Chi lo produce, e chi se ne appropria? O se vogliamo, più in generale: di chi è la città?
Il passaggio cruciale del libro è a mio avviso qui. Il ‘valore’ (economico) delle città, afferma l’autore rifacendosi a David Harvey, è immateriale e simbolico. “Non è prodotto solo da coloro che [la città] contribuiscono materialmente a costruirla (…) ma da tutti coloro che con il proprio stile di vita e con la propria creatività diffusa generano gli elementi culturali, estetici, simbolici ed esperenziali che conferiscono agli spazi urbani la loro unicità” (pag. 94). La gentrificazione esemplifica un più ampio dispositivo di estrazione, oltre che di sussunzione, se non proprio di espropriazione del valore eminentemente ‘comune’ prodotto collettivamente dagli abitanti, attraverso nuove forme di enclosure. Interessante è anche come, in questo passaggio, l’autore passi senza soluzione di continuità dal discutere di economia urbana a parlare di economia digitale. Tra la città e Internet ci sono d’altronde straordinarie analogie che ruotano intorno ad uno dei più grandi rimossi del dibattito contemporaneo: la rendita (Christophers, 2020; Pizzo, 2023). L’intelligenza artificiale non fa altro che portare tutto questo alle sue conseguenze più estreme.
Che fare? Alle derive privatistiche e individualistiche, si dice nella terza parte del libro, bisogna contrapporre quelle della comunità, della cura, della produzione collaborativa. Ma non basta. Unendo i puntini è facile capire come quell’ampio spazio che va dalla ‘critica sociale’ a quella che l’autore definisce ‘critica artistica’, e che corrisponde sostanzialmente al lavoro culturale, acquisisca una straordinaria centralità non solo per il suo peso nella città e nell’economia, ma per il suo potenziale trasformativo. A tal fine, è necessario però un lavoro enorme “per abbracciare la natura politica della cultura e della progettazione culturale”, e “fare emergere le conflittualità latenti” (pag. 233 e 234). Io credo che il punto sia esattamente qui, perché quelle di cui abbiamo bisogno non sono tanto comunità antropologiche, ma politiche; alleanze, più che relazioni. Altrove (Celata et al. 2021) ho auspicato un’alleanza tra tutti coloro che producono ‘valore’ collettivo nella città contemporanea, contro chi questo valore lo estrae e se ne appropria. Ma mi fermo qui, perché il ‘come’ lo dovremo sperimentare insieme su quello straordinario campo allo stesso tempo simbolico e materiale, culturale e politico che è la città contemporanea.

Ulteriori approfondimenti

  • Celata F., Lucciarini S., Gualdini R., Simone A. (2021), Il diritto a una città giusta. Percorsi per uscire dalla crisi del valore. Roma Ricerca Roma, www.ricercaroma.it.
  • Christophers B. (2020), Rentier capitalism: Who owns the economy, and who pays for it? London: Verso Books.
  • Pizzo B. (2023), Vivere o morire di rendita: La rendita urbana nel XXI secolo. Roma: Donzelli.

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