Dopo più di un decennio di intensi dibattiti attorno al tema, potremmo sintetizzare la sfida della “città giusta” come un programma di ricerca e di intervento che permetta a tutti i cittadini di auto-realizzarsi, al pieno del loro potenziale. Non a caso il tema della “giustizia spaziale” (o della “città giusta”) viene invocato spesso in concomitanza con il riconoscimento di certe disuguaglianze socio-economiche percepite come deleterie, o dis-funzionali, al raggiungimento di certi obiettivi desiderabili per lo sviluppo delle società.
Secondo Stefano Moroni, le condizioni di “giustizia spaziale” non possono essere dedotte dall’osservazione diretta di certe configurazioni finali dello spazio: lo spazio non è giusto o ingiusto in quanto tale, piuttosto possono essere giusti o ingiusti i rapporti soggiacenti a certe configurazioni. Questi aspetti, che sono strettamente connessi a una prospettiva di institutional design sono essenziali per capire i problemi in gioco e affrontare importanti questioni sulle misure necessarie per tutelare i cittadini e i loro diritti sociali di base (ad esempio, libertà civili, economiche, politiche).
Lavorare all’interno del paradigma di una idea di “spazio (più) giusto” non può prescindere da una revisione critica dei propri assunti, compresi i pregiudizi che permeano ogni disciplina. In quest’ottica, il contributo di Sarah Chiodi, Erika Kneib e Marcelo Ribeiro esplora come e in che misura il raggiungimento di tali obiettivi passino anche dal progetto pedagogico, soprattutto a livello universitario. Diverse facoltà di Architettura e Urbanistica nel mondo sono oggi interessate a contribuire a sostanziare il diritto alla città, in varie declinazioni, e soprattutto in termini di “funzione sociale della proprietà”.
Dai lavori di Stefano Cozzolino si comprende infatti come lavorare attorno ai diritti e doveri della proprietà non possa prescindere dalla necessità di lavorare per una distribuzione ampia e diversificata delle responsabilità progettuali. Il punto qui è comprendere come garantire un certo potere di azione e controllo sull’ambiente costruito, possibilmente distribuendo e adattando tali capacità alle più diverse volontà, ambizioni, risorse e preferenze degli attori urbani. L’idea che solo un intervento esterno possa calmierare (o del tutto evitare) certi effetti deleteri del vivere insieme, non è priva di costi e conseguenze.
Claudia Basta, ci invita a sviluppare un ragionamento più critico attorno a modelli eletti di “città giusta”. Delegare il destino dei territori in mano a pochi e soliti players (culturali, economici, epistemici, politici), lavorare all’interno di idee preordinate di “buono” e “giusto”, rischia di indurre – scholars e practictioners – alla rievocazione di antichi pregiudizi (ed errori fatali) su criteri distributivi e redistributivi per un modello di città, probabilmente inesistente e per certi versi indesiderabile.
Appare chiaro che attorno alla riflessione sulla “giustizia spaziale” si snodano importanti sfide istituzionali, culturali, progettuali, e (re)distributive.
Un progetto di “giustizia spaziale” potrebbe richiedere di riconoscere che non tutte le disuguaglianze socio-economiche sembrano dipendere dalla mera scarsità di risorse, ma anche dall’inibizione dei processi da cui l’esistenza di tali risorse dipende. Considerando l’Italia, e diverse altre parti del mondo, il mancato o ritardato sviluppo di certe aree non sembra essere solo la causa (o ragione) di una forma di “ingiustizia” territoriale, ma anche l’effetto (o impatto) di una serie di distorsioni delle “regole del gioco” essenziali per la prosperità socio-economica (si pensi all’impatto profondamente negativo della corruzione). Tali argomenti toccano anche aspetti deontici, con cui amministrazioni, progettisti architettonici e urbani, policy-makers, consulenti e analisti di varie estrazioni, devono fare i conti. In sunto, in questo editoriale vorremmo suggerire che, tanto più saremo disposti a proteggere certi i diritti sociali essenziali, dandone forma a livello empirico, integrandoli nei percorsi formativi/culturali, distribuendoli ed estendendoli nel tempo, tanto più sarà possibile “rendere giustizia” laddove serve di più.