Le mutazioni geopolitiche connesse agli eventi legati alla Guerra Fredda sono risultate in cambiamenti rilevanti negli stati di confine tra il blocco occidentale e orientale, tra cui l’Italia. In particolare, dagli anni Ottanta ad oggi è stata posta sempre più attenzione sulle ripercussioni territoriali dei farraginosi processi di sottoutilizzazione, abbandono e conseguente dismissione delle infrastrutture militari inadeguate per rispondere alle esigenze del Ministero della Difesa verso il nuovo millennio.
Le nuove necessità di risposta rapida e flessibile del sistema di difesa nazionale richiedono risorse fisiche molto diverse dalle massicce postazioni fisse della Guerra Fredda: enormi porzioni di terreni e edifici sono stati immessi conseguentemente sul mercato seguendo le dinamiche di ristrutturazione dell’apparato statale in un’ottica di razionalizzazione delle spese pubbliche e riduzione del debito pubblico. Si tratta di una dinamica non nuova nella storia d’Italia: la dismissione e riconversione ad usi civili dei patrimoni immobiliari militari si è ripetuta più volte a partire dall’Unità, contribuendo a modellare le città e cambiarne i connotati morfologici e identitari.
Le dismissioni promosse dalla fine del secolo scorso sono entrate da tempo nei dibattiti accademici, aprendo una riflessione ponderata sull’identificazione di problemi e possibili soluzioni su una tematica intersettoriale che oggi non è più una questione emergente nell’ambito degli studi urbani e regionali. All’interno dei limiti invalicabili delle mura militari si celano delle vere e proprie “città all’interno di città”.
Progettate per rispondere alle esigenze di addestramento e circolazione di soldati e veicoli militari, sui territori militari in abbandono si aggirano i desiderata di cittadini ed amministrazioni locali che vedono nel rilascio di questi terreni un’opportunità per migliorare la qualità di vita di specifici trami urbani e periferici. Tuttavia, si celano anche le esigenze di monetizzazione da parte del proprietario (il Ministero della Difesa) che, dall’alto della posizione di vantaggio tipica di chi possiede una porzione di suolo la cui rendita fondiaria potrebbe essere potenzialmente elevata, ricorre alla vendita (o svendita?) del proprio patrimonio immobiliare per rispondere alle normative statali di dismissione ed esigenze di austerità.
Sebbene siano state promosse indagini settoriali da parte di entità pubbliche e istituzioni accademiche a livello nazionale, regionale e municipale, ad oggi mancano ancora analisi sistematiche sulle dinamiche che seguono la chiusura delle infrastrutture, un inventario qualitativo e quantitativo della riduzione della presenza militare nel territorio italiano e un compendio di “buone pratiche” di riuso incorniciate in processi di rigenerazione urbana. Tali mancanze lasciano le comunità, i governi locali e gli stakeholder interessati a sperimentare processi di riuso “caso per caso”, pianificando collaborazioni pubblico-private, nuove tipologie d’uso e strategie di finanziamento basate su dispositivi normativi instabili, frammentati e contradditori tra di loro, oltre ad un mercato immobiliare poco favorevole.
Trattandosi di beni di proprietà pubblica, le ex aree militari dovrebbero configurarsi come una particolare tipologia di “beni comuni” la cui alienazione dovrebbe virare sull’ottenimento di benefici pubblici sociali, economici e ambientali, ma tali circostanze non si verificano se i terreni militari vengono valutati principalmente in termini finanziari. Lo “smaltimento” dei terreni militari in esubero è stato gestito nel tempo non solo dal Ministero della Difesa, ma anche da agenzie governative indipendenti, come l’Agenzia del Demanio, con modalità ed obiettivi spesso diversi, a volte contrastanti. Si passa infatti dalle procedure di vendita su base d’asta al miglior offerente al trasferimento gratuito (federalismo demaniale) agli enti locali per soddisfare esigenze della comunità. Queste circostanze hanno avuto un rilevante impatto sui risultati dei nuovi usi da attribuire ai terreni militari dismessi.
È mancata sostanzialmente una collaborazione interdisciplinare e con approcci misti concepiti secondo una visione politica e di governo del territorio di medio-lungo periodo, spesso non coincidente con il periodo di vigenza degli strumenti di pianificazione urbanistica a livello comunale: la tempistica della pianificazione strutturale ed attuativa, generalmente di 10 e 5 anni ciascuna, non risponde a quella di riuso dei vuoti militari.
I problemi che affliggono i processi di dismissione vanno al di là delle semplici rifunzionalizzazioni di tipo architettonico, soluzioni di restauro conservativo o di demolizione e ricostruzione pensati all’interno di strumenti di pianificazione attuativa. Le questioni da affrontare attraversano confini disciplinari, letterali e metaforici troppo complessi affinché si possa approcciare il riuso da parte di una sola disciplina.
Le scienze politiche, l’architettura e la pianificazione urbana, ad esempio, se agiscono da sole offrono risposte incomplete a molte delle domande di governo del territorio, così come i metodi quantitativi e qualitativi vengono utilizzati come mezzi insoddisfacenti per indirizzare le questioni di rigenerazione dei tessuti in cui si inseriscono le enclavi militari. Da qui la necessità di una riflessione che coinvolga il mondo politico e professionale per interfacciarsi con quello accademico.
Questo numero della rivista fornisce una base di riflessione per tutti coloro che lavorano in ambiti interessati dai fenomeni di dismissione militare per mettere in pratica riflessioni e progettualità in settori urbani e periferici finalizzati a dar nuova vita ad aree in disuso e degrado. Come si gestisce la riqualificazione delle infrastrutture militari dismesse? Quali politiche e progetti possono avere successo e in quali condizioni? Come possono le comunità interessate dalle dismissioni usare queste “pillole” per riconvertire gli ex siti militari? Le risposte proposte si intrecciano inevitabilmente con le sfide di resilienza e sostenibilità (in termini di contenimento del consumo di suolo, offerta di case a prezzi accessibili, passando per questioni di accessibilità urbana e nuove aree verdi per affrontare l’effetto “isola di calore”) affrontate dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per tracciare un nuovo percorso per il futuro dell’Italia da un punto di vista sociale, ambientale ed economico.
Ringraziamenti: Lavoro svolto nell’ambito del progetto “La Regeneración Urbana como una nueva versión de los Programas de Renovación Urbana. Logros y fracasos”. Questo progetto è cofinanziato dal Ministerio de Universidades all’interno del Piano per la Ripresa dell’Unione Europea – NextGenerationEU e dall’Universidad de Valladolid.