Il libro di Simone Rusci, La città senza valore (Angeli, 2021), provoca nuove sfide per il giurista. Le attenzioni poste alla rigenerazione da parte dei giuristi partono dal presupposto che lo strumento principe e di eccellenza di trasformazione del territorio, su cui si è fondato il diritto urbanistico, ha perso progressivamente la sua capacità di governo razionale e di utilità per i nuovi bisogni sociali, cosicché si è ritenuto che lo sguardo dovesse essere rivolto allo stimolo dell’offerta privata, considerata più flessibile, adattiva e capace di intercettare i cambiamenti.
Infatti, sebbene il termine di rigenerazione sia di per sé polisenso e quindi scarsamente utilizzabile per connotare in modo preciso uno specifico complesso di obiettivi e strumenti giuridici, può essere ritenuto che essa compendi un’ampia gamma di strumenti di incentivazione o di disincentivo attraverso cui viene riutilizzato il già costruito, risparmiando nuovo consumo di suolo o producendo di questo un complessivo saldo zero. A dispetto di questa definizione ampia ma sufficientemente rappresentativa, il volume di Rusci dimostra che esiste una parte dell’edificato o dell’impermeabilizzato che è strutturalmente immune a questi strumenti giuridici, cosicché quei beni o quelle infrastrutture non solamente sono in disuso ma sono inidonei al riuso.
Ciò sarebbe determinato dal fatto che la rigenerazione produce effetti solo se sa garantire ritorni di carattere economico per chi investe e, nei confronti di alcuni beni, questo appare impossibile nel medio e nel lungo tempo. Se si pensa alle aree interne ma anche a porzioni di territorio di provincia non è difficile crederlo. In questo modo il volume si caratterizza per due aspetti. Il primo è che, diversamente da quanto hanno fatto in modo critico molti osservatori, il problema della rigenerazione non sta semplicemente nella de-pianificazione o nella liberalizzazione delle trasformazioni del territorio, ma nell’inidoneità a garantire sempre valorizzazione.
Molti spesso sottolineano gli effetti negativi della rigenerazione, il volume di Rusci ci dimostra che in certi casi è più che altro inutile. Il secondo aspetto è che il libro ci permette di rivedere nella gestione del territorio esiti che si sono visti anche con riferimento ad altre politiche pubbliche impostate negli ultimi trent’anni prima della pandemia sui servizi pubblici, ridotti a complesso di prestazioni il cui pregio è stato misurato solo in termini economici con il risultato di produrre grandi squilibri sociali e territoriali.
Da ciò derivano gli interrogativi se sia possibile restituire un senso a quello che è insuscettibile di essere valorizzato dal punto di vista economico. La domanda pone una questione di fondo più ampia se il diritto debba essere in una funzione servente del valore economico o debba essere posto al servizio di obiettivi più ampi, in cui sia possibile restituire senso ai luoghi convogliando così anche valore economico. E se questa seconda strada è possibile, ha senso parlare ancora di rigenerazione?
Sulla prima domanda non ci sono molti margini di dubbio. Nel diritto esistono esempi molto ampi di interessi paralleli che insistono sul territorio finalizzati a perseguire obiettivi che di volta in volta possono essere ambientali, culturali, di tutela della salute, paesaggistici e sociali, ma il loro limite è che essi spesso agiscono come vincoli immobilizzanti, mentre la sfida è quella di restituire un senso rinnovato per fini di carattere sociale. Scontata la difficoltà di ritornare alla pubblicizzazione totale della trasformazione del territorio, la risposta potrebbe essere rappresentata dallo sviluppo programmato e consapevole dell’amministrazione condivisa.
A differenza degli altri modelli di amministrazione, quella condivisa investe sulla valorizzazione dell’apporto creativo dei cittadini e della società civile per la risoluzione di interessi generali. Tale approccio stimola comunque un’iniziativa privata che è prevalentemente civica e solo in misura limitata anche economica. È un’amministrazione che progetta e valorizza le capacità diffuse dei cittadini di saper immaginare i luoghi in rispondenza ai propri bisogni. Utilizza anch’essa incentivi e disincentivi, ma il vantaggio prodotto è quello di restituire un senso di riappropriazione collettiva dei luoghi.
Ciò genera innanzitutto valore di interesse pubblico, ma indirettamente anche valore economico attraverso i «fattori intangibili», nella misura in cui il primo è capace di liberare energie sociali e culturali e quindi senso di comunità. Gli esempi verificatesi negli ultimi anni sono numerosi, anche se si tratta di sperimentazioni che spesso non riescono a superare la soglia della provvisorietà. Quello a cui danno vita è però un altro modo di amministrare: meno formalistico, più collaborativo e cooperativo e confidente nelle autogestioni.
Tutto questo è ancora definibile come rigenerazione? In qualche modo negarlo significa assecondare proprio quello che si è criticato fin qui: ridurre la valorizzazione dei fenomeni sociali alla sola componente economica. Se, invece, si dà della rigenerazione un significato più ampio, come complesso delle politiche tese a curare ciò che ha perduto l’originaria funzione per rispondere a nuovi bisogni, il termine ha ancora una sua attualità. Come avviene in quella associata normalmente all’assistenza, la cura ha un valore economico limitato ma dà un apporto sociale notevole che supera la mera sfera privata, perché restituisce dignità alle persone. Lo stesso avverrebbe con la cura dei luoghi abbandonati, il cui destino non è quello di una nuova funzionalizzazione guidata dal mercato o da un’astratta decisione pubblica ma quello determinato da chi li vive in prima persona attraverso nuovi strumenti di partecipazione.