Di recente, diversi interventi su queste pagine hanno affrontato la questione delle concessioni balneari illuminando aspetti rilevanti quali la singolarità dei contesti o le trasformazioni di fatto degli arenili in oggetti molto diversi dalla semplice “spiaggia”.
È egualmente importante, per chi scrive, riportare al centro della discussione alcuni aspetti strutturali della questione che rendono il caso italiano del tutto eccezionale. Unico in Europa, lo stato italiano ha deciso, decenni or sono, che l’arenile è in gran parte un bene di mercato, e non un bene collettivo. Da questa scelta discende la circostanza, altrettanto unica in Europa, che vede il 43% degli arenili essere oggi accessibile a pagamento. Come noto, il livello di privatizzazione di fatto delle spiagge varia considerevolmente nel territorio ed appare particolarmente intenso proprio dove le dimensioni della domanda sociale sono tali da renderlo un bene relativamente scarso. I litorali di Liguria, Romagna e Veneto – quelli più immediatamente accessibili da un’area abitata da circa 30 milioni di persone – sono privatizzati in misura massiccia. A titolo di esempio, a Rimini, oltre il 90% del litorale è a pagamento, mentre in diverse città liguri lo è sostanzialmente al 100%. In questi casi, il regime concessorio ha trasformato un bene collettivo in un bene di mercato orientato ad una domanda solvibile, di fatto producendo scarsità e razionandone così l’uso.
È questo il quadro entro il quale andrebbe declinata la discussione sulla messa all’asta delle concessioni balneari. Il trattamento di mercato del litorale non dipende dalla disciplina europea sulla concorrenza – e quindi dall’applicazione della cosiddetta direttiva Bolkestein – bensì dalla precedente, ormai storica politica di privatizzazione degli arenili attraverso un regime concessorio promossa dallo stato italiano.
È questa politica a esporre il litorale alla disciplina europea della concorrenza, non la disciplina stessa. In Francia o Spagna, la direttiva Bolkestein non è rilevante per la gestione degli arenili perché questi non sono in concessione, rimanendo pubblici e gratuiti. In altre parole, prima dell’approccio neoliberale della commissione europea – con l’enfasi sulla concorrenza – viene l’approccio vetero-liberista dello stato italiano, che ha reso una varietà di beni collettivi oggetto di regimi concessori i cui equilibri sono, come noto, molto a favore di chi le concessioni le ottiene e poco dello stato che le concede. Senza quest’ultimo, e quindi in presenza di arenili pubblici, il secondo non comporterebbe un rischio di alcun genere né tantomeno il paventato arrivo di “grandi investitori internazionali” che oggi domina la discussione pubblica. Esiste, è verissimo, un tema di sovranità sui litorali, ma questo tema è già urgente oggi, e riguarda il conflitto fra la sovranità su questi ultimi da parte degli abitanti e delle comunità locali e quella di chi oggi detiene la concessione.
Sembrerebbe solo una questione di correttezza storica. Per chi scrive invece è una questione del tutto sostantiva, perché dalla scorretta ricostruzione che oggi prevale nel discorso pubblico discende una trattazione impropria dell’oggetto che ha evidenti implicazioni politiche. Il modello attuale di gestione degli arenili ha infatti permesso di convertire una questione che ha a che fare con la regolazione dei beni collettivi in una questione che ha a che fare con la posizione soggettiva di alcune migliaia di imprese, da una parte, e i meri interessi fiscali dello stato dall’altra. A dominare la discussione è l’alternativa fra rinnovo delle concessioni e loro messa all’asta, le dimensioni del rimborso degli investimenti effettuati, il livello dei canoni da riconoscere allo stato. Questione invece centrale e propedeutica è invece come e quanto il bene collettivo dell’arenile oggi risponde alla domanda sociale. L’ambiente e il paesaggio sono beni collettivi decisivi per la salute delle persone. L’accesso gratuito a tali beni riduce le diseguaglianze e fa parte – citando Bernardo Secchi – del capitale spaziale degli individui: una persona a basso reddito che possa soddisfare il proprio bisogno di ricreazione accedendo a una spiaggia – come a un parco o un sentiero di montagna (che, non casualmente, non sono a pagamento) – ha una vita migliore di una persona nelle medesime condizioni sociali di chi non gode di quell’accesso. La natura giuridica pubblica di questi beni suggerisce congenitamente il loro fine, oltre a quello dell’interesse ecologico.
Per chi scrive, per queste ragioni la politica vetero-liberista della sua privatizzazione attraverso il regime della concessione è stato un errore gravissimo che ora rende il litorale vulnerabile ad ulteriori processi di privatizzazione. Tuttavia, per diverse ragioni che non possiamo approfondire qui, appare oggi irrealistico un ribaltamento di quella scelta politica. Più ragionevole appare cogliere la finestra di opportunità regolativa rappresentata dalla necessità di adeguarsi ai vincoli della disciplina europea per proporre degli aggiustamenti che garantiscano un miglioramento della concreta esigibilità dei diritti collettivi di uso dell’arenile.
Da questo punto di vista, un primo obiettivo dovrebbe essere senza dubbio la riduzione progressiva della quota di arenile in concessione nelle regioni dove la domanda sociale è elevatissima e dove – per un meccanismo che ricorda la “tragedia dei beni comuni” – l’arenile gratuito disponibile è oggi paradossalmente scarsissimo. In diversi casi si tratterebbe di applicare norme già in vigore, visto che molti comuni non rispettano le soglie minime di arenili accessibili contenute nelle leggi regionali. Ma più complessivamente occorrerebbe costruire una nuova rappresentazione del litorale italiano sulla base delle dimensioni della sua domanda sociale – accesso con il trasporto collettivo, vicinanza a grandi centri urbani, dimensioni delle presenze – che fondi la legittimità di programmi mirati di ripubblicizzazione degli arenili. Le garanzie di accesso pubblico a litorali estremamente accessibili in virtù di investimenti collettivi e in presenza di un forte domanda devono rappresentare un criterio fondamentale di una politica di riordino. Questo non significa che non possano esservi ragionevoli attività economiche – ristorazione e affitto attrezzature – ma che l’arenile debba essere sgombro e accessibile gratuitamente.
Un secondo obiettivo dovrebbe essere la ridefinizione dei contenuti delle concessioni. La regolazione pubblica del livello delle tariffe di accesso appare oggi completamente assente dalla discussione pubblica che, come si diceva, riguarda esclusivamente l’entità degli oneri delle concessioni. Trattandosi di un bene pubblico in concessione, è del tutto legittimo prevedere dei prezzi regolati e anche delle misure di accesso gratuito per determinati gruppi sociali, proprio come accade per altri beni pubblici in concessione, quali ad esempio i centri sportivi non gestiti direttamente dai comuni. L’idea che un bene pubblico possa naturalmente evolvere verso tariffe sostenibili solo dai ceti superiori – se non in qualche caso addirittura solo dai super-rich – come suggerito da alcuni operatori la scorsa estate è, come ovvio, del tutto impropria. Non solo perché a queste tariffe dovrebbero corrispondere oneri infinitamente più elevati di quelli delle concessioni di oggi, ma perché la natura pubblica di quel bene impone prima di tutto la garanzia della sua accessibilità.
Come evidente, gli interessi umani non sono gli unici a dover essere considerati: ci sono gli interessi ecologici, che riguardano quelli di altre specie e dell’intero ecosistema, che devono essere egualmente al centro della discussione. Come è anche evidente che una politica degli arenili, nel concreto contesto italiano, debba necessariamente essere sensibile al contesto.