“Azzecca la camminabilità, e gran parte del resto seguirà”, scriveva Jeff Speck in Walkable City (2012). Speck parlava delle città nordamericane, cosa da tenere in conto, ma a noi pare che la tesi regga: la prospettiva della camminabilità – per studiare e per progettare la città – ci pare feconda.
Come l’ambiente urbano accoglie e favorisce il camminare determina come le persone percepiscono, usano e vivono la città. Il concetto di camminabilità è un tentativo programmatico di spingersi oltre la presenza, la distribuzione, e l’accessibilità delle dotazioni urbane, e di rilevare come e quanto l’ambiente urbano – i marciapiedi, ma anche le “quinte” e le attività pubbliche e private che vi si trovano – è in grado di offrirsi come piattaforma di vita quotidiana basata sulla mobilità pedonale. Così conta non solo se le opportunità urbane possono essere raggiunte a piedi o con mezzi di mobilità dolce, ma se i percorsi sono confortevoli, interessanti, utili e ben mantenuti; se sono integrati con il tessuto circostante, ricchi di attività, e (percepiti come) sicuri; se non sono asserviti all’automobile per scelte progettuali o per le prevalenti pratiche sociali d’uso dello spazio.
Assumere il punto di vista della camminabilità vuol dire dunque definire la qualità della vita urbana in termini delle ricche ed articolate relazioni tra lo spazio urbano e le sue dotazioni per valutare l’effettiva possibilità degli abitanti e dei city users di “usarle” per accrescere il proprio benessere.
Va detto che l’idea della camminabilità non è in sé particolarmente nuova: per molti aspetti basterebbe Jane Jacobs (che aveva, sì, azzeccato più o meno tutto) che dedica buona parte del suo prodigioso Vita e morte delle grandi città (1961) su come promuovere un uso intenso e diversificato della strada e dei marciapiedi. Ma anche Kevin Lynch ne L’immagine della città (1960), sottolinea come l’insieme dei percorsi urbani – quelli che oggi definiremo “prevalenti” – siano “il più potente mezzo” (“the most potent means“) per il disegno della città nel suo insieme; per andare ancora più addietro, alcune intuizioni, risonanze ed echi di queste idee si ritrovano già in Camillo Sitte de L’arte di costruire la città (1889) .
Quel che c’è di nuovo invece è la diffusione degli sforzi per rendere il concetto operativo, per sottoporlo a sistematizzazioni e a procedure di valutazione formale, e la possibilità di adoperarlo in modo più rigoroso come strumento di supporto alla decisione, alla progettazione urbana, alla pianificazione della mobilità (Blečić et al. 2020). Questa svolta operativa è stata certamente favorita dalla disponibilità e diffusione di dati spaziali di dettaglio, dall’aumento della potenza di calcolo e dallo sviluppo degli strumenti informatici e delle tecniche computazionali.
A noi pare appropriato, produttivo e giusto collocare il concetto della camminabilità all’interno dell’approccio delle capacità la cui elaborazione discende dalle seminali riflessioni di Amartya Sen. Tra i fattori delle capacità umane, il modo in cui le nostre città e l’ambiente fisico “funzionano” – il modo in cui sono costruiti, organizzati e usati dalle pratiche sociali – conta: lo spazio è un fattore determinante di alcune capacità individuali, che possiamo definire capacità urbane (Talu 2014).
Dal punto di vista del metodo valutativo, formulare la camminabilità in termini di capacità urbane dovrebbe per ogni punto nello spazio riflettere se, come, chi e verso dove si può intraprendere una camminata. In altre parole, non si tratta tanto di “misurare” quanto un punto nello spazio è in sé camminabile, anche se questa variabile deve ovviamente far parte dell’equazione, ma qual è la camminabilità di cui ciascun luogo è dotato (Blečić et al. 2015).
Questa prospettiva potrebbe consentire a pianificatori, progettisti e decisori pubblici di leggere e interpretare in maniera più efficace le molteplici relazioni tra la città e i suoi abitanti, per svelare le circostanze in cui la città è un “ostacolo” alla promozione delle loro capacità, per meglio definire i requisiti e i contenuti dei piani e dei progetti tesi a rimuovere tali ostacoli.
In questo contesto, la camminabilità è una “capacità feconda”, in grado di operare sugli “svantaggi corrosivi” e promuovere altre capacità per diverse categorie di persone: il controllo del proprio ambiente fisico e sociale, l’autonomia, la socialità, il gioco, ecc.
La camminabilità intesa come capacità urbana fa riflettere sulle pratiche di pianificazione delle dotazioni urbane (per esempio gli standard urbanistici) e suggerisce una possibile via operativa di integrazione della base informativa utilizzata per descrivere e valutare la componente urbana della qualità della vita. Il riferimento alla capacità urbana impone, infatti, due requisiti, distinti ma strettamente connessi fra loro: (1) l’esigenza di non considerare solo il “conteggio” delle dotazioni urbane, ma anche e soprattutto la descrizione dell’uso che gli individui ne possono, o non ne possono fare; (2) la necessità di fare riferimento alle possibilità che gli individui hanno (o non hanno) di utilizzare le diverse dotazioni urbane a partire dalle loro caratteristiche individuali.
La camminabilità come capacità pone tuttavia un problema epistemologico: come rilevare le capacità di una persona, se le uniche cose osservabili sono le loro “realizzazioni effettive”, vale a dire, i suoi funzionamenti. La via d’uscita da questo gatto di Schrödinger della filosofia politica pensiamo sia di “guardare al negativo”: definire un insieme di funzionamenti urbani di valore e identificare i possibili ostacoli per diverse persone che possano limitare o compromettere il loro esercizio.
C’è una meravigliosa battuta – la rubiamo a Slavoj Žižek che spesso la racconta – in Ninotchka di Ernst Lubitch, raccontata dal Conte Leon d’Algout (Melvyn Douglas) a Ninotchka (Greta Garbo): un uomo entra in un ristorante, si siede e dice: “Cameriere! Portami una tazza di caffè senza panna.” Dopo qualche minuto, il cameriere torna e dice: “Mi scusi, signore, abbiamo finito la panna, posso portarle invece il caffè senza latte?”. Il punto è che il caffè nero è una bevanda “imperfetta”: ciò che ciascuno deve aggiungerci va registrato positivamente.
Le città sono il nostro caffè. Ci viene servito nero, ma per capire che cosa davvero ciascuno ottiene, conta registrare quello che ciascuno ci metterebbe per colmare la mancanza. Una curiosa svolta operativa: per leggere le capacità la cui teoria è tutta incentrata sulle libertà positive del divenire, dobbiamo a livello operativo rivolgerci alle loro determinazioni negative. In altre parole, anche se a tutti ci tocca prendere il caffè nero, dobbiamo in effetti scoprire chi lo prende senza panna, e chi senza latte…
Inteso così, il concetto di camminabilità è fecondo anche per guidare le politiche. Interventi che migliorino la camminabilità di un quartiere possano favorire in modo naturale processi di riqualificazione urbana che si muovano nella direzione di una maggiore equità ed eguaglianza (Blečić et al. 2021). Processi che, considerati in maniera sistemica, possono essere ricompresi nel paradigma della “città dei 15 minuti”.
L’apparente originalità della “città dei 15 minuti” sta nell’aver dimenticato l’importanza della prossimità, e di Jane Jacobs. Benvenuta sia questa riscoperta senza però a sua volta dimenticare Christaller, e Mandelbrot. La “città di 15 minuti” non dovrebbe essere l’appello a un “localismo piatto”, ad un’autosufficienza autarchica della città di prossimità, o ad un’idea ingenua e romantica di “villaggi urbani”. Piuttosto, deve fare i conti con la natura multi-scalare delle città e puntare ad un “localismo frattale”, con le opportune forme di coordinamento e integrazione, nel quale un sistema urbano a livello del vicinato offra un’elevata accessibilità di beni, servizi a ciascuno, secondo le proprie esigenze e capacità, in tempi ragionevoli, a piedi o attraverso una mobilità “dolce”, tali da essere intrinsecamente più giusti e protettivi nei confronti dei più fragili, ma anche capaci di adattarsi agli shock esogeni e agli imprevisti.
Una delle debolezze del progetto della città dei 15 minuti sta nel fatto che, specie nelle periferie, le dotazioni di servizi, non solo i servizi pubblici, ma i negozi, i luoghi di divertimento, i bar e i ristoranti, sono spesso inesistenti e che è improbabile da un lato che si possa imporre o incentivare in modo forte la loro localizzazione in quei quartieri, e dall’altro che maturino le condizioni economiche per cui si possa verificare “spontaneamente”.
In molte periferie ci sono imponenti disfunzionalità e sprechi e inefficienze nei sistemi urbani e insediativi che si sono sedimentati, sicché – partendo dall’esistente – c’è un imponente lavoro da fare per risanare, recuperare, riconvertire, riqualificare rigenerare questo patrimonio da un punto di vista edilizio, architettonico, urbanistico, infrastrutturale, economico, sociale, culturale delle dotazioni e dei servizi.
Forse un piano che duri molti anni e che sia modulare, incrementale e persistente, non una “grande opera”, ma una vera “opera grande” con investimenti molto consistenti e durevoli e che preveda una riqualificazione architettonica, edilizia e urbanistica, la dotazione di servizi pubblici di qualità, politiche che incentivino il trasferimento dal quartiere e verso il quartiere di persone e di insediamenti produttivi, interventi per l’autosufficienza energetica, un sistema di trasporti efficiente e ”moderno” a partire dalla mobilità “interna” che renda il quartiere camminabile, e con attività del quartiere imbastite anche con modalità di gestione innovative e basate sulla mobilitazione e sul protagonismo dei cittadini.
In questa piccola rassegna, abbiamo invitato autori e autrici a presentare riflessioni, esperienze e ricerche che, pur lungi dall’essere esaustive, diano conto della fecondità, analitica e pratica, della camminabilità.
Così, nel primo contributo Giuseppe Andrea Trunfio presenta le opportunità di valutazioni automatizzate “di massa” della camminabilità con l’impiego di algoritmi di deep learning su big data.
Nel secondo, Enrica Papa riflette sulle esperienze degli “street experiment”, riconducibili alle pratiche dell’urbanistica tattica, come strumento per testare e valutare soluzioni anche radicale di trasformazione degli spazi urbani.
Intervenire sulla camminabilità vuol dire anche pensare alla mobilità sistematica generata dai grandi attrattori. Così nel loro contributo Colleoni, Caiello e Ramusik presentano alcuni risultati di un’indagine sulla mobilità sistematica attiva nelle università italiane, che suggeriscono l’attivazione di politiche mirate di mobilità sostenibile.
Infine, con l’ultimo contributo di Gorrini, Pressice e Choubassi sulla camminabilità e l’inclusione di genere abbiamo voluto portare all’attenzione un tema di diseguaglianza “ostinata”. È sicuramente solo un esempio, ma utile per dire che proteggere le fragilità è una componente della “strategia” antifragile della nostra specie.
Ma sull’antifragilità, sulle politiche urbane antifragili, e su ciò che rende le città meno fragili e più antifragili, dobbiamo tornare.
Ulteriori approfondimenti
Blečić I., Cecchini A., Congiu T., Fancello G., Talu V., Trunfio G. A. (2021), “Capability-wise walkability evaluation as an indicator of urban peripherality”, Environment and Planning B: Urban Analytics and City Science 48, 895–911
Blečić I., Congiu T., Fancello G., Trunfio, G. A. (2020), “Planning and Design Support Tools for Walkability: A Guide for Urban Analysts”, Sustainability 12, 4405 (2020)
Blečić I., Cecchini A., Congiu T., Fancello G., Trunfio, G. A. (2015), “Evaluating walkability: a capability-wise planning and design support system”, International Journal of Geographical Information Science 29, 1350–1374
Talu V. (2014) Qualità della vita urbana e approccio delle capacità, FrancoAngeli, Milano.