Dopo la pandemia è apparso evidente come il Covid abbia colpito più duramente proprio dove il territorio era inconsistente o in quelle regioni dove i Dipartimenti di prevenzione erano stati praticamente smantellati affidando tutto il sistema di gestione dei servizi sul territorio a soggetti privati e convenzionati, senza coordinamento.
È stato questo annullare/ridimensionare i Dipartimenti di prevenzione che ha pesato maggiormente, perché la salute è un sistema che è fatto sì di cura delle patologie, di eccellenze nella chirurgia, ma è anche un gioco di anticipo sulla malattia. Un anticipo che, senza una visione di lunga durata sulla società, appare spesso come una spesa rinviabile o un optional legato alle buone intenzioni (perché ci si preoccupa dell’urgenza e meno dell’importanza).
La prevenzione, nelle sue diverse sfaccettature, al contrario, è un investimento obbligatorio sul futuro ed è strettamente connesso ad un uso attento delle risorse di cui si dispone.
Per decenni si è parlato di territorio, di cure primarie, di servizi di base, di consultori, ecc., insomma di tutto quell’insieme di servizi che servono a mantenere uno stato di salute o, almeno, a gestire una patologia cronica il più a lungo possibile limitandone le complicanze e gli accessi ospedalieri.
Per anni, però, tutto questo veniva, nei fatti, contraddetto da una visione ospedale-centrica. Solo per fare un esempio ancora diffuso: un paziente dimesso da un reparto ospedaliero per una situazione acuta torna spesso al medesimo reparto per i successivi controlli. In questo modo, lo stesso servizio di medicina sul territorio viene glissato e, di fatto, sminuito nella sua attività di cura, mentre il reparto ospedaliero è oberato da un servizio di cui non dovrebbe occuparsi.
La visione ospedale-centrica più datata era anche rappresentata da una moltitudine di piccoli ospedali spesso lasciati in attività per campanilismo più che necessità (perché, al bisogno, per sicurezza ci si va a curare all’ospedale di eccellenza più vicino).
E poiché in sanità la quantità fa qualità, i piccoli ospedali diventano luoghi dove paradossalmente curarsi è rischioso (come racconta l’esempio degli ospedali con meno di 500 parti l’anno che non garantiscono sicurezza in situazioni complesse).
A questa bulimia ospedaliera si risponde, dopo anni, con il Decreto del 2 aprile 2015, n. 70 “Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera”. Il Decreto n. 70/2015 completa il percorso di codifica delle attività dell’ospedale. A partire dalla codifica delle prestazioni con i DRG (Diagnosis Related Groups) fino ad arrivare al DM 70, l’ospedale è, ormai, un oggetto noto: sappiamo come funziona, quanto costa, cosa deve contenere per essere gestibile, sostenibile e sicuro. Così, con un’operazione che non è stata indolore, si è intervenuti secondo il sistema “hub and spoke” per cui molti piccoli ospedali sono stati chiusi, altri riconvertiti e alcuni si sono specializzati su specifiche patologie.
Chiuso il percorso del DM 70, ci si è resi conto che doveva seguire un “DM 71” che organizzasse e desse visibilità ai servizi sul territorio. Le criticità emerse con il Covid, la chiusura degli ospedali alle attività di routine e l’incapacità del territorio ad intervenire in modo organizzato, hanno accelerato il processo.
Attraverso la definizione della Missione 6 del PNRR, concentrata sull’organizzazione del Territorio attraverso due Componenti: 1. Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale; 2. Innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario; dove la Componente 1 ha previsto la Riforma “Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria” e gli Investimenti previsti stanno riguardando “Case della Comunità e presa in carico della persona”; “Casa come primo luogo di cura e telemedicina”; “Rafforzamento dell’assistenza sanitaria intermedia e delle sue strutture (Ospedali di Comunità)”.
È, quindi, con il DM 77 (decreto 23 maggio 2022, n. 77, Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio Sanitario Nazionale) che vengono descritte le strutture, le prestazioni, il personale (numero e qualifiche) che dovranno operare sul territorio. E tutto questo dovrà integrarsi non solo con le strutture ospedaliere ma anche con i servizi resi dai comuni.
Quanto previsto dal DM 77, in un’ottica di prossimità, comporta l’impiego di figure professionali nuove, che intervengono a domicilio utilizzando le nuove tecnologie e la telemedicina. Si prevede che la cura e il monitoraggio di milioni di cittadini cronici sia praticabile a domicilio non più come situazione eccezionale. Senza contare che questo approccio “verso” il paziente faciliterebbe la condizione della moltitudine di cittadini che abitano le cosiddette Aree interne, che soffrono la carenza e la lontananza da servizi essenziali e indispensabili.
Questo complesso di indicazioni, condurranno anche al far coincidere – finalmente – i Distretti sanitari con gli Ambiti Territoriali Sociali, a creare Punti Unici di Accesso che siano veri luoghi di accoglienza delle necessità dei cittadini, luoghi dove le risposte siano coordinate e univoche, percorsi che portino all’eliminazione dei “pellegrinaggi” da un ufficio all’altro per fornire più risposte ad un unico cittadino.
Ed è proprio guardando a quanto previsto dal DM 77 che si comprende ancora meglio come alcune spese sociali dei comuni devono trovare complementarietà con quelle di carattere sanitario, pena l’incompiutezza e, in parte, lo spreco di risorse. Non solo, la prevista coincidenza tra Distretti sanitari e Ambiti Territoriali Sociali, impone di guardare in modo coordinato alle prestazioni e alle spese perché “la mano destra sappia cosa fa la sinistra” e insieme sappiano gestire i complessi (no complicati) bisogni dei cittadini italiani. Infine, poiché le connessioni tra sociale e sanitario in tema di prossimità sono costanti e continue, è anacronistico e antieconomico, in un Paese demograficamente connotato come l’Italia, continuare a tenere separati due aspetti così importanti della vita di una larga parte dei cittadini.
Questa pressante e non più rinviabile modalità di lavorare insieme tra sanità e sociale, anche dato l’alto numero di anziani cronici che vivono nel nostro Paese, necessita di uno sforzo importante e complesso nella messa a punto di indicatori di qualità sociale che vadano verso la standardizzazione e la definizione dei Livelli Essenziali di Prestazioni Sociali. Infatti, solo codificando le azioni e le prestazioni che i comuni erogano, rendendole esigibili da Nord a Sud, indicando con lo stesso nome la medesima prestazione, si esce dall’erogazione optional dei servizi e si può parlare di diritti diffusi.
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