Il volume di Luca Gaeta affronta un tema delicato e molto controverso, quale è quello della “urbanistica contrattuale”. C’è da dire che la negoziazione in urbanistica, ossia la ricerca di un accordo tra l’Amministrazione comunale ed i proprietari degli immobili da trasformare, da sempre è una pratica molto diffusa. Già quando i piani urbanistici si occupavano di regolare l’espansione urbana, l’interlocuzione tra l’Amministrazione ed i proprietari dei terreni accompagnava spesso la scelta delle direttrici di sviluppo, delle capacità edificatorie, delle aree da cedere all’Amministrazione e delle opere urbanizzative da realizzare. Non può sfuggire che persino la stessa definizione di un piano di lottizzazione contiene scelte progettuali incidenti sia sul valore economico dei lotti privati che sul pregio delle attrezzature pubbliche, e quindi implica una negoziazione.
È vero che in passato si teorizzava che l’Urbanista dovesse redigere il piano regolatore chiuso in una sorta di torre d’avorio, così da compiere le proprie scelte senza subire l’influenza degli interessi privati. Tuttavia, non è dato sapere quante siano effettivamente state le esperienze di questo tipo, né se i loro concreti esiti siano stati, agli effetti pratici, davvero migliori di quelli ottenuti dalle Amministrazioni che fin dall’inizio del processo di pianificazione hanno voluto tener conto della reale conseguibilità degli obiettivi urbanistici e sociali del piano. Personalmente, appartengo alla scuola di pensiero secondo cui, dal punto di vista tecnico, una componente essenziale del quadro conoscitivo sia la struttura della proprietà fondiaria. Stefano Pompei, uno dei padri della perequazione urbanistica, sosteneva che il piano deve essere disegnato sia sulla cartografia tecnica che su quella catastale.
Sono consapevole che la conoscenza della proprietà fondiaria è cosa diversa dalla negoziazione con essa delle decisioni urbanistiche che la riguardano. Tuttavia, il passaggio dalla prima, che ha natura tecnica, alla seconda, che possiede anche un rilevante aspetto politico, è breve. Se la perimetrazione dei comparti urbanistici è effettuata a prescindere dalla struttura della proprietà fondiaria, le proprietà non si riuniranno nel consorzio ed il piano non si realizzerà. Se le attrezzature pubbliche sono localizzate facendo affidamento solo sull’espropriazione, la “città pubblica” ha un’alta probabilità di non realizzarsi mai. Le Amministrazioni hanno sempre saputo chi fossero i proprietari delle aree in gioco: molte di esse all’epoca dell’espansione urbana hanno seguito pratiche concertative che hanno consentito di realizzare, di pari passo, la città pubblica e la città privata.
Nell’epoca della trasformazione urbana in più occasioni il piano si occupa di aree che furono edificate per utilizzazioni divenute obsolete. Si tratta di immobili ai quali il mercato, il bilancio societario o anche il convincimento dei proprietari, assegna un valore economico rilevante. Perlopiù la proprietà di questi beni è privata. È quindi evidente che qualsiasi piano o progetto non possa prescindere da una interlocuzione tra le due parti: l’Amministrazione che cura gli interessi della città ed il privato proprietario (o il futuro sviluppatore) che mira alla valorizzazione immobiliare ed al profitto. Questi obiettivi, propri dell’operatore privato, si attenuano quando il proprietario è un soggetto del settore pubblico, ma anche nel caso delle aree ferroviarie o delle caserme dismesse la ricerca di un accordo tra l’Amministrazione detentrice dei poteri di pianificazione e la proprietà immobiliare è un passaggio obbligato.
Per le ragioni esposte, penso anch’io, come l’Autore, che “è inaccettabile il perpetuarsi di un atteggiamento distratto nei confronti della negoziazione urbanistica, talvolta ammantato di sdegno moralistico, quando parti estese della città contemporanea sorgono sotto il segno di accordi”, che “attorno ai tavoli negoziali” possono prendere ”forma politiche e progetti urbani che richiedono un bilanciamento delle reciproche convenienze di attori pubblici e privati, nonché una esauriente valutazione degli impatti sulla cittadinanza e sull’ambiente”, e che “l’urbanistica praticata in forma contrattuale” richiede di essere riconosciuta quale “prassi ordinaria, rendicontabile e regolata di governo del territorio”.
In tale prospettiva, fra le numerose questioni discusse nel volume desidero sottolinearne quattro. La prima è l’imprescindibile necessità di un piano generale, e quindi di una cornice di obiettivi, di limiti e di regole per la gestione delle negoziazioni. La seconda è l’autorevolezza dell’Amministrazione, e quindi l’esistenza di una Amministrazione capace di approcciare il negoziato con capacità analoghe a quelle possedute dalla controparte privata. La terza è la crescente rilevanza della valutazione tecnica di tutti gli aspetti significativi del progetto trasformativo. La quarta è il carattere vincolante che gli impegni assunti devono possedere per entrambe le parti.
La disponibilità di un piano urbanistico generale, ossia di una visione dell’Amministrazione sul futuro della città, sugli obiettivi economici, sociali, ambientali, urbanistici da perseguire sia in generale che nelle diverse parti della città, sui limiti che le trasformazioni devono osservare (es. densità, permeabilità, consumo di suolo, ecc.), sulle regole da osservare (fra cui anche le modalità di svolgimento del negoziato), è una condizione che consente al negoziato di massimizzare la propria utilità. Al riguardo nel volume si richiama il “piano strutturale” del modello INU, variamente interpretato dalle leggi di alcune regioni. Mancando tutto ciò, l’impiego del negoziato caso per caso è foriero di innumerevoli disastri: urbanistici soprattutto, e spesso anche politico-amministrativi.
L’esperienza insegna che là dove l’Amministrazione è autorevole, efficiente, equa, trasparente, il negoziato è modalità di attuazione del piano generale ritenuta ordinaria, per effetto della quale si incrementano gli investimenti e le opere pubbliche. L’esperienza insegna anche che quando l’Amministrazione non riesce a dotarsi di un piano generale che indirizzi verso un orizzonte condiviso i comportamenti dei cittadini ed agisce dando adito al sospetto di favoritismi, il negoziato è un campo minato: è sempre occasione di aspre e paralizzanti polemiche, ed è anche esposto al rischio di comportamenti illeciti.
È acquisito che nella trasformazione urbana le regole urbanistiche caratterizzate dalla standardizzazione e dalla rigidità (es. zoning con destinazioni di dettaglio, indici di edificazione per zone omogenee, taluni standard urbanistici, ecc.) non sono appropriate. Principi di equità e di sostenibilità vanno tuttavia assicurati. Nei nuovi dispositivi di natura perequativa e compensativa si fa crescente affidamento ai fattori di incentivazione ovvero di disincentivazione. La valutazione multidimensionale diventa quindi una imprescindibile componente tecnica della gestione del negoziato.
Il volume offre anche lo spunto per avviare la riflessione su una questione finora rimasta poco esplorata: la reciprocità nel rispetto degli impegni contrattuali. Di solito la trattazione del punto è unidirezionale: si contesta all’Amministrazione l’incapacità di rispettare i tempi degli impegni assunti e di riversarne gli effetti negativi sull’iniziativa privata. La riflessione merita di essere estesa agli impegni urbanistici privati. Nel volume è citato il caso di un promotore che, raggiunto l’accordo, cede ad altri il contratto disinteressandosi dell’attuazione. Nelle nostre città ci sono progetti rimasti a lungo incompiuti per l’incapacità imprenditoriale o finanziaria del privato di assolvere agli impegni presi. È noto che l’escussione delle fideiussioni è complicata e comunque non risolve il problema urbanistico dell’incompiuta realizzazione. Su questa componente dell’“urbanistica contrattuale” occorre continuare a ragionare.
Ulteriori approfondimenti
Stanghellini S. (2017), Un approccio integrato alla rigenerazione urbana. Urbanistica, n. 160, 2017.