21 Novembre, 2024

Rallentare, venticinque anni dopo. Partecipazione, conoscenze, populismo

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Quasi un quarto di secolo fa Paolo Fareri, uno studioso scomparso troppo presto che lavorava al Politecnico di Milano e all’Istituto per la Ricerca Sociale (IRS), pubblicava quello che a mio avviso è uno dei saggi più belli e interessanti sui paradossi e sulle possibilità della partecipazione in riferimento all’urbanistica e alle politiche urbane. Il saggio si intitolava Rallentare. Note sulla partecipazione dal punto di vista dell’analisi delle politiche pubbliche.

L’obiettivo dello scritto di Fareri era duplice: da un lato, denunciare alcuni pregiudizi a favore e contro la partecipazione, basati su fraintendimenti e riduzioni poco fertili; dall’altro, proporre una definizione della partecipazione in quanto strategia di indagine e di gestione dei processi decisionali, ovvero come strumento per il miglioramento dell’efficacia delle politiche in situazioni particolarmente complesse.

Il presupposto del lavoro di Fareri era il seguente: dopo una fase, tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, nella quale la partecipazione aveva assunto un ruolo centrale in un più ampio processo di apertura e democratizzazione dei processi di mutamento della città, dentro un contesto di conflitto politico e sociale spesso radicale, a partire dagli anni ’80 e nei decenni successivi i dispositivi di costruzione e gestione di processi partecipativi hanno assunto sempre più la natura di strumenti tecnici per favorire il consenso intorno a decisioni già assunte e per assicurare il controllo dei conflitti. 

Fareri denunciava in particolare la riduzione della partecipazione a tecnica, e mostrava come i processi partecipativi sono sempre essenzialmente eventi locali, che si collocano, per dirla alla Bourdieu, in campi strutturati di poteri e di saperi. Per questa ragione, secondo Fareri, la deriva tecnologica della partecipazione impediva di coglierne la dimensione generativa e la capacità di produrre nuove conoscenze utilizzabili (il riferimento è alla nozione di “usable ordinary knowledge” di Charles Lindblom) e di riconoscere il potere generativo del conflitto.

Cosa ci insegna, riletta oggi, la proposta di Fareri? Per rispondere a questa domanda può essere utile volgere lo sguardo all’indietro per riflettere sulle relazioni tra progetti (urbanistici) e politiche (urbane) e dimensioni interattive, partecipative, negoziali, riconoscendo la scia di due onde lunghe.

La prima ha a che vedere con la crisi della concezione tecnocratica della pianificazione e della progettazione a partire dagli anni ’60 del XX secolo negli USA e poi in Europa. Si tratta di riferimenti rilevanti nelle teorie del planning, che mettono in gioco la dimensione sociale dell’attività di pianificazione, in un intreccio con i temi della democrazia locale e del nesso tra città e potere.

Questo sguardo retrospettivo permetterebbe di cogliere il nesso tra l’introduzione dei temi partecipativi nelle pratiche di progettazione e un doppio movimento di critica: nei confronti dell’autoreferenzialità e della chiusura del sapere tecnico rispetto al sapere comune, e a favore della riappropriazione del destino della città da parte degli abitanti rispetto allo Stato e al sistema di interessi ad esso connessi.

Il secondo sfondo ha invece a che vedere con un movimento che si fa strada negli anni ‘70 e che prende le mosse dalla crisi della governabilità dei paesi occidentali. Dentro questa crisi si colloca la sconnessione radicale del nesso tra welfare state e urbanistica, che a partire dagli anni ‘80 ha segnato l’avvio di un ciclo lungo di “ritorno al mercato” in chiave liberista in tutti i paesi occidentali.

Dentro questo secondo movimento si collocano le radici dei temi del coinvolgimento dei privati nel governo urbano, delle partnership, della negoziazione, in relazione ai processi di cambiamento strutturale delle forme di attività e dei sistemi concreti d’azione dello Stato e del Governo.

Entrambe queste storie si collocano al crocevia dei nessi tra Stato, mercato e società (anche nella sua versione comunitarista o neo-comunitarista), ma hanno origini e segni diversi e in parte contrapposti. L’introduzione di logiche partecipative e negoziali nelle pratiche del progetto pubblico territoriale deve dunque essere collocata in queste “storie lunghe”, pena la radicale incomprensione della loro natura e del loro ruolo entro processi più ampi di risignificazione dell’azione pubblica.

In altre parole, comprendere la dimensione interattiva dell’attività di progettazione del territorio significa anche collocare le pratiche interattive messe in gioco entro un campo che è insieme ideologico e di potere.

I venticinque anni che ci separano dalle intuizioni di Fareri hanno determinato spostamenti e radicalizzazioni nel campo entro il quale si collocano le pratiche e le tecniche partecipative. Da una parte, abbiamo assistito, nei paesi occidentali e in particolare in Europa, a un processo di estensione e istituzionalizzazione delle pratiche partecipative, nella prospettiva della produzione di consenso intorno a progetti e piani rispetto ai quali le decisioni più rilevanti sembrano essere già state assunte. Come affermava ormai molti anni fa Pier Luigi Crosta, la partecipazione finisce sempre più per assomigliare ad una tecnica atta a “far partecipare” per tenere a bada i conflitti e per assicurare il successo di operazioni che poco hanno a che vedere con una discussione libera e aperta sulla stessa costruzione dei problemi pubblici.

Dall’altra parte, il ritorno crescente di istanze populiste, che possono essere intese come scrive Marco Revelli come manifestazioni di una “malattia senile della democrazia”, connessa al rapido impoverimento delle classi medie occidentali sotto il peso della crisi economica, ma anche della sconfitta storica del lavoro nel cambio di paradigma socio-produttivo che ha accompagnato il passaggio di secolo.

Il populismo, che spesso si accompagna alla crescente sfiducia in qualsiasi forma di competenza, connota i processi di voice e di partecipazione nella chiave della disintermediazione, impoverendo i luoghi nei quali la discussione pubblica si dovrebbe attrezzare per produrre e arricchire le conoscenze in gioco, rendendo la deliberazione pubblica una strategia cognitiva prima che una tecnica per assumere decisioni.

Rispetto alle città e all’urbanistica, il combinato disposto di populismo (spesso supportato dalla nuova arena dei social media) e istituzionalizzazione/tecnicizzazione della partecipazione conduce dunque a una pericolosa depoliticizzazione, che indebolisce i caratteri progressivi della partecipazione e la dialettica virtuosa tra sapere tecnico e saperi comuni e contestuali. 

Questo mi sembra il crinale sul quale siamo pericolosamente collocati, e questo è il terreno per un ripensamento radicale della partecipazione come possibile cura, piuttosto che come pericolosa malattia, della democrazia locale.

Ulteriori approfondimenti

  • Fareri P., “Rallentare. Note sulla partecipazione dal punto di vista dell’analisi delle politiche pubbliche”, in id. Rallentare. Il disegno delle politiche urbane, a cura di, M. Giraudi, Franco Angeli, Milano 2009 (ed. orig. 2001).
  • Pasqui G., La città, i saperi, le pratiche, Donzelli, Roma, 2018.
  • Pasqui G., Gli Irregolari. Suggestioni da Ivan Illich, Albert Hirschman e Charles Lindblom per la pianificazione a venire, Franco Angeli, Milano, 2023. 

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