L’approccio al patrimonio costruito ha conosciuto diverse fasi nel corso della storia. Nell’antichità, la pratica dello spoglio con il riuso dei materiali da costruzione, per motivi di economicità e utilità, ha prevalso sulla “conservazione”. L’antica pratica dello spoglio dei monumenti e, in generale, del costruito, può considerarsi un modello di economia circolare ante litteram. Anche la rifunzionalizzazione guidata dalla volontà di cancellazione di antiche vestigia per esaltare nuove iniziative trova radici lontane, inserendosi nei processi di circolarità insiti nella città. L’evoluzione stessa della città è stata caratterizzata da sequenze cicliche che, con la rivoluzione industriale, per effetto dell’aumento di energia disponibile nel mondo conosciuto, ha insinuato il concetto di scarto, di rifiuto, rintracciabile in tutte le componenti della vita urbana alle diverse scale.
Lo sviluppo sostenibile, o, forse, l’autosviluppo, così come evidenziato con un grido di allarme dal Club di Roma (1971), richiama un concetto più ampio, quello della crescita illimitata strettamente collegata con la disponibilità di energia. In questo senso, le crisi energetiche che spesso si manifestano in occasione delle transizioni energetiche, o, più correttamente, che sono causa ed effetto delle transizioni, mettono in chiaro il valore profondo dell’economia circolare nelle sue molteplici scale, dalle componenti edilizie all’oggetto e/o infrastrutture.
Nella contemporaneità, il paradigma dello sviluppo sostenibile si incardina tra una flebile memoria e una dirompente prospettiva di continua crescita illimitata che mira a privilegiare l’azione di riuso e riqualificazione del patrimonio costruito esistente per limitare il consumo di suoli vergini, con esiti non sempre oggettivamente convincenti. In diversi contesti europei, gli stessi attraversati dalle diverse fasi industriali, i processi di rigenerazione urbana avviati a partire dagli anni ’80 e ’90 e scaturiti da questa precisa volontà di rinnovare le città a partire dal loro interno, hanno sostenuto la demolizione di intere aree dismesse per lasciare spazio alla costruzione di nuovi edifici e quartieri connotati dall’etichetta “green”. In Italia si è di fronte ad una paradossale ‘condizioni limite’, tra la dominanza e distribuzione spaziale di fabbricati e vuoti urbani e la necessità di uno sviluppo etico ed armonico.
Tuttavia, in un momento di grave crisi energetica che colpisce l’Italia più di altri paesi europei, all’obiettivo del contrasto al consumo di suolo si aggiunge quello della massimizzazione della performance delle Pubbliche Amministrazioni nell’azione di razionalizzazione dell’utilizzo del patrimonio edilizio, pubblico e privato, anche attraverso processi di trasformazione capaci di limitare gli impatti ambientali, di rispondere alle nuove esigenze abitative legate agli stili di vita contemporanei e di garantire la qualità degli ambienti urbani.
Il tema è particolarmente rilevante se si considera che nel Bel paese il fenomeno ‘dell‘erosione’ del patrimonio edilizio presenta una dimensione e una distribuzione non più trascurabile.
Secondo recenti studi, lo stock immobiliare censito, pari a quasi 76,5 milioni di immobili o loro porzioni, di cui la maggior parte ad uso abitativo e a destinazione commerciale e varia, è stato realizzato in gran parte a partire dal secondo dopoguerra, con una crescita esponenziale negli anni ’60 e ’70 del boom economico italiano, per poi registrare un arresto significativo dagli anni ’80, senza più raggiungere i livelli precedenti.
Inoltre, una significativa parte del parco immobiliare, localizzato in ambito urbano ed extraurbano, anche in contesti di valore e pregio paesaggistico, risulta essere sottoutilizzato o non utilizzato. Si tratta di “seconde case” localizzate nei territori a vocazione turistica, di interi agglomerati urbani colpiti da fenomeni di migrazione e spopolamento (zone interne, aree montane), ma, soprattutto, di immobili ad uso abitativo e commerciale che, seppur localizzati in aree urbane ancora attrattive, registrano oggettive difficoltà ad intercettare la domanda d’uso.
In un momento storico segnato dalla transizione energetica, ecologica e digitale, alcune riflessioni appaiono necessarie. Quali dovranno essere le condotte da adottare nei confronti di questa importante componente immobiliare nella città del futuro? Più precisamente, quale ruolo ricoprirà la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio per la definizione di nuove funzioni urbane capaci di favorire il riuso dello stock immobiliare dopo la pandemia?
Da una parte, i piani urbanistici convergono verso la tutela, la conservazione e la valorizzazione del paesaggio, con orientamenti da collezionismo urbano. Dall’altra, si inseriscono strumenti di livello nazionale come i bonus, che, sebbene spingano verso innovazione di processo e risultato, determinano tensioni tra i molteplici strumenti di governo del territorio, alimentando ricorsi e contenziosi.
In questo senso, appare chiara la necessità di una solida politica energetica multiscalare (capace di accompagnare la transizione e, al contempo, incidere in maniera profonda nel patrimonio pubblico e privato sottoutilizzato o inutilizzato. A livello locale, gli stessi piani urbanistici, correttamente focalizzati verso la dimensione metropolitana, dovrebbero iniziare a introdurre strategie alla scala di quartiere, anche alla luce delle opportunità emerse dalle prime esperienze di creazione di Comunità Energetiche, attraverso le quali è stato inaugurato il passaggio dall’azione individuale, quasi sempre esito delle politiche dei bonus, a quella collettiva, organizzata dalle comunità di quartiere.
Ma ancora, quali competenze e sensibilità dovranno avere pianificatori e progettisti chiamati a leggere nuovi e futuri bisogni negli spazi di prossimità, o meglio, dei 15 minuti?
Da questo punto di vista, incoraggianti prospettive arrivano dalla formazione del Progettista di Quartiere (PQ), una figura professionale recentemente introdotta in Italia per colmare mancanze ancora evidenti in realtà dove le varie progettazioni di carattere sociale poste in essere dagli attori istituzionali e dalle tante organizzazioni no profit non hanno prodotto i risultati attesi. La necessità di professionalizzare le fasi di ideazione, progettazione, finanziamento e realizzazione di tutte le iniziative basate sui servizi di prossimità, sulla rinascita dei rapporti di vicinato e sulle connessioni sociali di quartiere, ha portato alla definizione di un preciso profilo dotato di capacità e competenze tali da costituire un vero punto di riferimento nel progetto di riqualificazione e “riattivazione” della città. Al PQ si richiede uno sguardo attento per captare i bisogni delle comunità e, quindi, per individuare nuovi servizi i rispondenti a specifiche domande emergenti e troppo spesso trascurate dalla dirompente dimensione urbana metropolitana. Il ruolo del PQ, apparso fondamentale già nella fase pre-pandemica, è stato rafforzato durante l’emergenza sanitaria. Infatti, la pandemia, che ha causato profondi cambiamenti negli stili di vita del singolo e della comunità, ha richiesto la ridefinizione degli assetti organizzativi urbani in linea con i principi della città di prossimità, dove lo stesso obiettivo del riuso del patrimonio, pubblico e privato, potrà trovare una giusta collocazione.
Riferimenti bibliografici
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- La figura professionale del PQ è riconosciuta dall’AIPQ (Associazione Italiana Progettista di Quartiere), fondata ai sensi della Legge 4/2013
- Nepa E. L., Bernardini S. (2021). Il manuale del progettista di quartiere. Youcanprint