Durante la pandemia molte azioni messe in campo dai Comuni hanno avuto necessità di un maggiore impegno economico mentre altre sono state interrotte per il timore della diffusione del contagio. Interruzioni che hanno determinato danni a vari livelli nella popolazione: ritardi nelle diagnosi, incremento di situazioni di disagio tra i giovani, aggravamento di alcune situazioni tipiche della terza età, ecc.
Alla pandemia ha fatto seguito un grande piano di ripresa e resilienza (PNRR) che attraverso sei missioni ha rivisto quanto poteva essere ammodernato e incrementato dando avvio ad una ondata di riforme attese da anni. Solo per citarne una tra tutte, quella del “Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale”, cosiddetto DM 77, che finalmente ha dato forma alle attività che la sanità da decenni tenta di rendere evidenti e uniformi sul territorio in ogni regione. Sono state dettate le regole sulle diverse strutture, sulle loro prestazioni e sulla tipologia di operatori che le devono erogare. Un processo che prova a far uscire dall’area della trasparenza i servizi che pure esistono sul territorio ma che vengono puntualmente bypassati dai cittadini a favore del più segnalato e sempre presente ospedale vicino.
Ma ormai è diventato di assoluta necessità concentrarsi su una sanità di prossimità, tanto più che buona parte dei Comuni del Paese sono collocati in quelle aree che vengono definite “interne” perché disagiate dal punto di vista dei servizi essenziali come la mobilità, l’istruzione e la sanità, appunto. La prossimità e la domiciliarità sono il viatico per una visione della salute a 360 gradi. Un Paese che nei Comuni al sotto dei 2.000 abitanti dispone, al massimo, di una farmacia, e dove si concentra una popolazione di over 65enni superiore al resto delle altre aree, deve prevedere strumenti che avvicinino, che monitorino, che rendano i cittadini coscienti del proprio stato di salute e delle azioni necessarie per mantenerlo (empowerment).
In questo contesto si incardina il concetto di One Health come drive per tutte le politiche (come dice il Piano Nazionale di Prevenzione). La pandemia ne è stata la più evidente manifestazione: tutto ciò che circonda l’uomo – ambiente, animali, clima, ecc. – contribuisce, nel bene e nel male al suo stato di salute e benessere.
Più che in altri ambiti, la salute è frutto dell’intersecarsi delle politiche sociali con le politiche sanitarie. Non solo, tutto quello che è ambiente, arredo urbano, spazi organizzati o meno, sono espressione di un’attenzione al benessere dei cittadini che quegli spazi li abitano.
Oltre quarant’anni di Servizio sanitario nazionale universalistico hanno reso l’Italia un Paese con un’aspettativa di vita tra le prime al mondo. Di contro, all’aumento della popolazione anziana, si accompagna quello che viene definito “inverno demografico”. Il rischio è che se non si cambia paradigma nella gestione della sanità, e della salute nel suo complesso, il SSN rischia di diventare vittima del suo successo.
Se non si interviene con azioni costanti e quotidiane contrastando l’insorgere delle patologie croniche tipiche dell’età anziana e le loro complicanze, in un contesto di scarsità di risorse – umane ed economiche – il tema della sostenibilità e del ridimensionamento saranno le sole note sulle quali modulare le azioni del sociale e della sanità.
Occorre ripensare le azioni per raggiungere con efficacia una grande fetta della popolazione e per fare ciò è necessario uno sguardo concentrato – per il tempo necessario – sulle questioni importanti prima che su quelle urgenti poiché quelle importanti, quando gestite, limitano l’insorgere di quelle urgenti.
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