In Italia esiste una grossa fetta di patrimonio immobiliare che è rimasta, di fatto, al di fuori dalle principali politiche urbane e territoriali. Si tratta di quel patrimonio che ho chiamato in un recente libro la città senza valore (Rusci, 2021), ovvero quel patrimonio che ha perduto da prima la sua capacità di produrre plusvalore – ovvero di essere un bene redditizio – poi il suo valore di mercato – ovvero la sua capacità di essere scambiato e convertito in moneta – ed in molti casi anche il suo valore d’uso – ovvero la sua capacità di rispondere alle domande dei suoi utilizzatori e possessori.
È il patrimonio dismesso ed obsoleto che caratterizza molti territori d’Italia, non solo quelli delle aree interne, ma sempre più anche l’Italia delle piccole città di provincia rimaste disconnesse dalle reti globali e nazionali sulle quali circolano oggi risorse, lavoro, servizi e conoscenza.
È un patrimonio, quello senza valore, in forte crescita, grazie ad una tendenza naturale del capitale alla polarizzazione, ma anche grazie a politiche pubbliche che, soprattutto nell’ambito delle infrastrutture, hanno inseguito bovinamente l’investimento privato.
È un patrimonio lontanissimo dall’immaginario romantico del borgo abbandonato (al quale ha ceduto il PNRR con il bando del Ministero della Cultura), spesso composto da un’edilizia nata nei piccoli o grandi boom locali tra gli anni ’60 e ’90, e che si presenta come tarmatura del tessuto urbano (Lanzani & Curci, 2018): in una fitta commistione e alternanza tra immobili ancora in uso e in buono stato di manutenzione ed immobili obsoleti e abbandonati. A volte una tarmatura di grana finissima, che può interessare le unità immobiliari di uno stesso edificio.
Rappresenta oggi, e rappresenterà in futuro, un problema per due ordini di motivi: il primo, già enunciato, è che questo patrimonio sta al di fuori del raggio di azione delle consuete politiche urbane. Al di fuori della rigenerazione, perché incapace di sostenere economicamente la sua trasformazione; al di fuori delle politiche di uso (temporaneo, sociale, pubblico o collettivo), perché posto in contesti dove una domanda di uso non si dà più, ma dove anzi esiste un enorme surplus di offerta immobiliare e localizzativa; al di fuori delle politiche di incentivo, perché, per le ragioni già esposte, non si rileva alcuna convenienza al suo riutilizzo, ancorché sovvenzionato da fondi pubblici.
Per questo rappresenta oggi un relitto urbano alla deriva.
Difficile, anzi difficilissimo, pensare ad un suo diffuso riuso grazie alle presunte ondate di ripopolamento post-covid che, per ora, hanno colonizzato le pagine dei giornali più che i territori.
La sua impermeabilità alle politiche di rigenerazione fa sì che questo patrimonio permanga problematicamente sul territorio, generando criticità puntuali di incolumità e decoro e criticità più diffuse di deprezzamento immobiliare e di degrado ambientale. Più in generale problematiche di convivenza, di compatibilità e di integrazione con ciò che gli sta intorno.
Il secondo motivo che lo rende problematico è la sua sostanziale ineliminabilità. È un patrimonio irreversibile, la cui cancellazione (demolizione) comporta costi non dissimili da quelli impiegati per la sua edificazione, ed evidentemente insostenibili sia per le disponibilità pubbliche che tantomeno per quelle private. Si aggiunga a questo quello che ho altrove definito “principio di conservazione dell’edificabilità” (Rusci, 2021), ovvero il fatto che questo patrimonio costituisce per il suo possessore un titolo permanente per l’edificazione o per la riedificazione, da tenere buono per future necessità o da poter trasferire se gli strumenti urbanistici lo consentono. Un titolo per altro defiscalizzato, grazie all’esenzione riservata alle unità collabenti (la categoria catastale che definisce i ruderi di edifici) e agli abbattimenti per gli immobili non utilizzati previsti dalla legge di bilancio 160/2019.
All’interrogativo su cosa farne le risposte gravitano inevitabilmente attorno alla rigenerazione, al riuso e più di recente alla resilienza. Termini spesso vuoti e retorici che si esauriscono di fronte alla pragmatica insostenibilità economica del suo recupero e all’assenza di soggetti interessati al suo riuso; di fronte anche alla difficoltà di arginare, con politiche locali, dinamiche fortemente ancorate ai processi globali di localizzazione della produzione e della popolazione.
Merita allora, forse, compiere uno sforzo concettuale, ammettendo che possa esistere un patrimonio non valorizzabile (non coinvolgibile in politiche di riattribuzione di produttività, di valore e d’uso), almeno non in un orizzonte di breve e medio periodo e non attraverso forme preordinate di prefigurazione (piani e progetti). Ammettere cioè che non tutto può essere rigenerato e non tutto può divenire resiliente, ma che, al contrario, le città e i territori sono composti da elementi fragili e problematici con i quali si deve convivere nel migliore dei modi possibili.
Un patrimonio, dunque, da gestire come risorsa – ecologica, storica o paesaggistica – da custodire e tutelare nel lungo periodo trovando le modalità (e soprattutto le politiche) per una sua pacifica coesistenza con ciò che ancora è in uso.
Chiamarlo terzo paesaggio, rovina della contemporaneità (Clément, 2005) e su di esso intervenire con low renovation, building freezing, set-aside urbani o con processi di rinaturalizzazione controllata sono i primi embrionali e sporadici tentativi che sono stati teorizzati e in qualche caso applicati.
Riferimenti bibliografici
- Clément, G. (2005). Manifesto del Terzo paesaggio. Macerata: Qudlibet
- Lanzani, A., & Curci, F. (2018). Le Italie in contrazione, tra crisi e opportunità. In A. De Rossi, Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste. (p. 79-107). Roma: Donzelli
- Rusci, S. (2021). La città senza valore. Dall’urbanistica dell’espansione all’urbanistica della demolizione. Milano: FrancoAngeli